Belial coltiva, tra gli altri, il vizio della scrittura. Ha scritto i romanzi Saxophone Street Blues (2008, Las Vegas) e Making Movies (2009, Las Vegas).

venerdì 27 marzo 2009

Saxophone Street Blues su Società dei Poeti Morti

Ringraziamo Penelope Silver, che ha recensito Saxophone Street Blues sul blog Società dei Poeti Morti.

giovedì 26 marzo 2009

Racconti Macabri: Mistificazioni e menzogne attorno a un diamante su un teschio di platino

Su Website Horror, un nuovo racconto macabro di Hector Luis Belial.


Non ha più alcun senso parlare di For the Love of God. Il teschio coperto di platino e diamanti ha già contato i suoi ammiratori e detrattori. Schierarsi con gli uni piuttosto che con gli altri, ormai, significa scegliere tra l’ingenuità più pretenziosa ed una banalità che sfiora il paradosso. Quanto a chi si astiene, lo fa meno per ignoranza che per sdegno.
Del resto, ogni controversia etica, estetica ed economica legata a ideazione, finanziamento, lottizzazione e incanto dell’opera è già stata discussa fino alla noia. Il mondo ha avuto modo di sbadigliare a morte per l’unico eccesso che può veramente uccidere un’opera votata all’esubero: quello di notorietà.
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sabato 21 marzo 2009

Racconti Macabri: Il Regno a Venire

Prosegue, del tutto impunemente, l'unico appuntamento al quale nessuno di noi potrà tardare... [Pdf]


Accadde – fatto inconsulto nell’Italia contemporanea – che la nota soubrette s’innamorasse di un morto. La coppia destò il prevedibile scandaletto e diede un po’ di lavoro alle mai inflazionate malelingue. Non saremo certo noi, comunque, a parlar male di un morto. Anzi va detto, né mancò di notarlo la stampa mondana più accorta, che si trattava di un cadavere di tutto rispetto. D’impeccabile eleganza, dalla
prestanza statuaria (pur nei limiti del suo stato di conservazione), la salma si distingueva non poco dalla cricca di sportivi e palazzinari che costituivano l’usuale cerchia di accompagnatori della velina. Parco nella conversazione, la sua idiosincrasia per lo sproloquio costituiva un caso più unico che raro. Il sontuoso matrimonio fu allestito in tempi record.

Certo, nei primi tempi, a vederlo a spasso con la giovane sposa, faceva sensazione. I paparazzi non gli davano tregua, ma egli, nella tranquillità d’animo che lo contraddistingueva, non si sottrasse mai agli obiettivi. Frustrati dall’impossibilità di coglierlo in pose che non mostrassero la massima dignità, i fotografi smisero ben presto d’inseguirlo per le strade. Nel frattempo, però, le foto della coppia in automobile avevano fatto il giro del paese, riportando in voga un tipo di vettura – il carro funebre – solitamente poco apprezzata fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori. L’autofunebre (specie se di fabbricazione tedesca) divenne, per qualche tempo, più popolare del SUV. Dapprima status symbol del bel mondo, non mancò di affascinare anche le casalinghe, le quali scoprirono, nell’ampio bagagliaio, un incomparabile aiuto nelle compere di tutti i giorni.

Poi, inevitabilmente, si iniziò a vedere nell’inedita coppia qualcosa di raccapricciante, ovvero il cattivo gusto della velina. La quale, nella sua usuale frivolezza, insisteva nel voler trascinare il dignitosissimo morto in ambienti ch’egli non poteva non sentire alieni: il club di grido, la boutique di Gucci, la beauty farm (le cui lampade regolarmente fallivano nel risuscitarne il colorito), il ponte dello yacht dell’amico, e via dicendo. Per la verità, tutti si erano ormai resi conto che l’impeccabile contegno del defunto era del tutto incompatibile con quello, banalmente sciatto, della ballerina. Si malignò molto sul fatto che, tra le molte virtù del marito, ella non apprezzasse che il rigor mortis. Il decadimento della sciacquetta, che già da mesi si dedicava a tempo pieno alla più plateale cornificazione del defunto, coincise con l’inizio della nuova stagione televisiva.
Epurata dai palinsesti, privata anche dell’ultima colonna di giornaletto da teenager in cui lamentarsi della freddezza del marito, seguitò per qualche tempo nelle sue tresche via via più squallide – il sedicente produttore cinematografico, l’imprenditore, il salumiere, il venditore d’auto usate, l’idraulico, il testimone di Geova, la centralinista del call center della carta di credito bloccata… Fallendo nel rompere l’oblio in cui il suo nome era stato gettato, sfiorita al punto da essere rifiutata ai provini di un film porno, ottenne il divorzio dal morto e tornò a vivere dalla madre.

La fortuna del morto, di contro, non accennò a scemare. Anzi l’interesse per il cadavere aumentò di prestigio: dalla cronaca rosa passò a quella politica. Ma questo morto sarà di destra o di sinistra? La domanda serpeggiava in seconda serata e nei corridoi di palazzo. Astensinista, democristiano, trasformista, bipartisan – ognuno interpretò il silenzio del morto a modo suo. Su una cosa si trovarono tutti d’accordo: sembrava il leader di partito ideale.

Carismatico, inflessibile, più ben conservato che buon conservatore, il suo humour era esclusivamente nero. In compenso, si trattava indubitabilmente di un uomo tutto d’un pezzo. Il personaggio adatto a riportare la serietà nell’arena politica italiana. Perfino senza un profilo su Facebook o dei video su Youtube, il morto era proiettato nel futuro – il futuro di tutti! – come nessun altro. Specchio ideale dell’elettore medio, il morto fu accolto in Roma da cortei e corone di fiori. Esordì impeccabilmente al Ministero della Cultura. Non sappiamo ancora quando, ma è ormai una certezza universalmente nota: il suo governo verrà. E, presumibilmente, non avrà fine.

domenica 15 marzo 2009

Racconti Macabri: Simón del Desierto

Primo racconto di una serie a sfondo macabro. [Pdf]


Da quando la fama di Simón arrivò a spandersi, suo malgrado, ben oltre i confini del deserto, l’attività di stilita è passata, da inusuale stile di vita, a professione consolidata. Il vago sentiero attraverso le dune, dalle polveri raramente smosse da rade carovane, è oggi un’ampia via ben lastricata. Il viavai di mercanti e pellegrini è tale che il vento solleva cori di preghiera ed urla di banditori di bestiame, le mescola alla polvere di strada, e le trasporta attraverso il cielo per incalcolabili miglia.

Il viandante che si trovi a passare sotto quello stesso cielo, un tempo colorato di un azzurro vuoto, ed insostenibilmente tendente all’infinito, lo troverà oggi puntellato di colonne. Pilastri di pietra, di marmo, di mattoni cotti al sole; alcune colonne sfoggiano scanalature e capitelli corinzi, altre sono semplicemente imbiancate, molte rimangono orgogliosamente al grezzo. Le più alte svettano contro il sole per diversi cubiti, benché le più antiche non superino la statura di un uomo che di poche teste. Le colonne più fastose giungono come doni dai miracolati di famiglie abbienti, le più frugali consistono spesso d’un tronco spoglio, piantato nel terreno, con una minuscola pedana fissata alla sommità. Alcuni pellegrini giurano che almeno sette di queste colonne sono alberi maestri di antichi velieri; come, dal mare, siano giunte al cuore ardente del deserto, è solo uno dei misteri che fa la fortuna degli stiliti.

Sopra ogni colonna, naturalmente, vi è un uomo. Il mondo dello stilita è ridotto ad una pedana sollevata da terra, spazio vagamente sufficiente per il suo solo corpo, e che gli fa da letto, cesso e pulpito. Lo stilita non ha mai un tetto sopra la testa; il suo corpo è arso dal sole e schiaffeggiato dal vento; la sabbia gli si infila nelle pieghe delle pelle, tra i lunghi fili della barba mai rasa; è la rara pioggia, quando viene, a lavarlo. Al mattino cala il suo cesto fino a terra, con una lunga corda; vive della carità del pellegrino che lo riempie con un tozzo di pane ed una zucca d’acqua. Le carni ed il vino erano tradizionalmente rifiutati, ma col proliferare degli stiliti, si moltiplicano le usanze, e si inteneriscono le regole. Di giorno, lo stilita prega per la sua anima e per quella dei fedeli che si radunano ai suoi piedi; essi non sempre sono numerosi, e non sempre abitano i dintorni. Gli capita di fustigarsi o di imporsi penitenze dolorose, lo si vede restare in posizioni dalla scomodità impraticabile per ore, per giorni e notti, per settimane, ben al di là del limite di sopportazione conosciuto dagli uomini. Gli si attribuiscono, immancabilmente, eresie e miracoli, perché la gente è tradizionalmente disposta a credere, e tendenzialmente incline a dubitare. Ha i suoi tormenti, le sue visioni, e le sue crisi. A volte, dopo anni inflessibili di vita nel deserto, implora i passanti di alzargli una scala, piangendo e strappandosi i capelli. La gente allora si affolla ai suoi piedi, lo lascia scendere, lo lascia passare. Qualcuno gli strappa un lembo della veste, alcuni baciano i suoi piedi nudi, le piaghe sotto le ginocchia. Infine gli fanno largo, molti se ne vanno, alcuni rimangono a guardare i suoi passi malfermi, mentre scompare nel tramonto. Quale destino attenda l’eremita che lascia il suo posto, è un altro di quei misteri che alimentano la fede negli stiliti.

Lo stilita è raramente un santo, quasi mai un sacerdote, sempre più spesso un autentico peccatore. Non è infrequente, ormai, che sia un assassino o un ladro a prendere la via del deserto, e a ritirarsi sulla sommità di una colonna. Non tutti hanno accolto favorevolmente questa recente tendenza; tuttavia, il diritto di predicare non è mai stato precluso ad un peccatore. Quanto alla possibilità di essere ascoltato, si è trovato che gli stiliti dal passato torbido riscuotono la simpatia e la devozione di non pochi viandanti. Essi colorano il loro messaggio delle tinte della vita vissuta; a chi si ferma ad ascoltarli, più che ad una messa, pare a volte di assistere a una confessione. Fra loro, non è mistero, si contano anche dei cialtroni, banditi scampati alla forca grazie allo stratagemma della colonna; essi fingono il digiuno di giorno, ma non appena cala la notte, ecco arrivare le orde di sghignazzanti compagni di rapine. L’aria si riempie di echi di spari nell’aria e nitriti agonizzanti di cavalli spronati a sangue, che stramazzano ai piedi della colonna. Là i fuorilegge appiccano dei falò, estraggono chitarre e fiaschi di vino, cantano e s’ingozzano per tutta la notte. Il loro compagno, dall’alto della colonna, partecipa ai festeggiamenti come può: cala frettolosamente il cestello, che i compari non lesinano di caricare di carne di porco, e vino a volontà. Ma nonostante queste consolazioni, questi derelitti si stancano presto della vita d’eremitaggio. I finti stiliti, generalmente, non durano molto come predicatori, e a meno che non sorprendano, nei momenti di solitudine, almeno un briciolo di vocazione, e si danno ben presto alla macchia.

La gran crescita del numero di colonne ha portato, paradossalmente, alla formazione di confraternite di stiliti. Il sodalizio tra uomini che, per forza di cose, non solo non condividono lo stesso pane sotto i denti, ma nemmeno lo stesso suolo sotto i piedi, non può che avere una natura puramente spirituale, e risolversi in una condivisione di vedute e toni di predicazione. Questi ordini di uomini solitari contano sempre un numero esiguo d’iscritti; però si può immaginare che, un giorno, i maggiori tra essi diventeranno numerosi ed influenti, e conteranno colonne e proseliti nei deserti di tutto il mondo, rispettando rituali e tradizioni comuni. Per ora, è rimasto celebre il caso di quei tre stiliti i quali, dopo anni di vicinato nell’eremitaggio, si erano fatti costruire tre colonne identiche, vicine ed allineate tra loro. Essi erano noti semplicemente come “i tre”, e si narra delle loro predicazioni a più voci, non di rado spettacolari.

I tempi stanno rapidamente cambiando, e nemmeno il deserto rimane uguale a se stesso. Si aprono chioschi e si piantano tende. I mercanti sostano, a poche iarde dalle colonne, per far riposare uomini e bestie, ed è allora che notizie, persone e merci si mescolano tra loro e cambiano per sempre. Vi sono, ogni giorno che passa, più stiliti, più fedeli e più merci, in un circolo di interessi tanto vasto e variegato che ormai di rado viene definito vizioso. Cosa porterà il domani, non ci è dato vederlo. Avremo probabilmente stiliti di sesso femminile, occorrenza che non si è ancora registrata. Magari il numero di colonne crescerà al punto da ricoprire l’intero manto del deserto, ed il pellegrinaggio verso gli stiliti arriverà a coinvolgere l’intero popolo. Le terre desolate, allora, saranno largamente abitate, mentre le città, abbandonate, cadranno in rovina. Il nostro popolo smetterà di coltivare i campi e di costruire ferrovie, e le poche navi entreranno nei diroccati porti solo per far scendere i pellegrini giunti dall’altra parte del mare. La gente imparerà dai nomadi i costumi dell’apolide, e vagherà per le sabbie per molti secoli. Ad un uomo che si affaccia alla vita, non si porranno che due destini: la predicazione, o la diaspora. Per bocca dei suoi innumerevoli profeti, perfino Dio si farà molteplice e pellegrino, e la ricerca delle sue tracce, interminabile, coinvolgerà infine ogni nazione.
Per il momento, il nuovo corso dello stilitismo conta, naturalmente, innumerevoli detrattori. La chiesa romana, innanzitutto, non ha visto di buon occhio il proliferare di predicatori eterodossi. Tuttavia, finora, non è veramente riuscita ad arginare il fenomeno. Alcuni sospettano la presenza, tra i viandanti, di osservatori vaticani mandati in segreto nel deserto. Essi, osservatori discreti, censiscono continuamente il numero degli stiliti, stendono liste di eresie presunte, in ordine di gravità, e le consegnano a Roma tramite messi mascherati e rapidissimi. Questi inquisitori in incognito si dice siano abilissimi nell’orientare le quotidiane folle di fedeli verso questo o quello stilita, di fare, con un pugno di parole, la fortuna di un predicatore e la disdetta di un altro. Sarebbero dunque loro i maggiori inventori di prodigi, i manipolatori occulti della lotta di potere più lontana dall’urbanità che la storia dell’uomo ricordi.

Anche molti mistici ed eremiti hanno ormai orrore delle colonne, che dicono divenute incompatibili col ritiro spirituale. Essi si domandano, infatti, se questi nuovi stiliti cerchino il contatto col divino meno di un piedistallo per parlare alle folle. Il derelitto, l’emarginato, il criminale; colui che non ha mai ricevuto un briciolo d’amore dalla gente, che è stato bandito dalla società e braccato dalla legge, guadagna oggi, nella colonna, un pulpito gratuito, e si vede finalmente attorniato da folle, per quando esigue, finalmente disposte ad ascoltare le sue parole, ad amarlo, ad adorarlo, perfino. Per reazione, gli eremiti più ortodossi, oggi, evitano le colonne come la peste; piuttosto, si addentrano per giorni nei più ignoti anfratti della terra, portando con sé un numero d’assi di legno e di chiodi che sarebbero insufficienti per la costruzione di una bara. Essi non iniziano a scavare la propria fossa prima di aver raggiunto l’assoluta certezza di trovarsi a miglia e miglia dal più flebile odore d’umanità. La fossa non è mai più larga né lunga di pochi cubiti, e le assi servono a sostegno del soffitto, di rado abbastanza alto da permettere a un uomo di alzarsi in piedi; è dotata di un unico ingresso, rigorosamente nascosto da un cespuglio, da pietre, da teschi bovini. Terminata l’edificazione delle buche, gli eremiti vi si ritirano definitivamente. Così essi siedono nel ventre del nulla, mormorano le loro preghiere all’oscurità. Non ricevono elemosina alcuna, né l’accetterebbero, nemmeno se un viandante, per pura ventura, scoperchiasse uno dei loro nascondigli. Muoiono d’inedia e consunzione, nella più ricercata indifferenza degli uomini; e non manca chi maligna sulla loro sfiducia nel prossimo, tanto radicale che, al pari dei condannati al patibolo, si preoccupano di scavarsi la fossa da soli.

Gli scettici sbagliano, tuttavia, quando sostengono che l’ormai caotico culto degli stiliti abbia dimenticato il silenzio ed il distacco dal mondo. Fra tante colonne, la più frequentata, la più ricca di devoti, quella alla quale si attribuiscono i miracoli più numerosi e stupefacenti, rimane costantemente muta. Né canti né predicazioni si levano da quel pilastro. Perché appartiene a Simón, e Simón è morto vent’anni fa. Il suo teschio, fissato alla sommità di un palo in cima alla colonna, continua a gettare il suo sguardo portentoso e severo sopra i fedeli prostrati e muti. Quelle orbite vuote, in fondo, non appaiono meno luminose degli iridi del mistico più febbricitante, in quanto uno stilita rimane, in primo luogo, un uomo che ha deliberatamente abbandonato il mondo dei vivi.

sabato 7 marzo 2009

Racconti: La Teoria del Caos

Un nuovo racconto di Hector Luis Belial. Notturno, inedito, post-paranoico. [Pdf]


Semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni.
J.F. Lyotard

Nel film che ho visto – quello degli uomini arancioni e dei motorini rubati – il protagonista si sveglia nel cuore della notte per un rendez-vous: vuole raggiungere un bar in cui non ha mai messo piede per incontrare una donna che non ha mai visto. Assistiamo ad alcune scene abbastanza oscure, con dettagli di mani e piedi nudi, riflessi di neon su piastrelle polverose, ed altri particolari indistinguibili per via del buio pressoché totale. Come se non bastasse, l’intera sequenza è girata a mano, con oscillamenti eccessivi e voluti. Ecco, io credo che con tutto questo, il regista intendesse illustrare l’alienazione del protagonista nel momento del proprio risveglio: la sua stanza non appare come un insieme di forme e colori familiari, ma al massimo con le gelide dimensioni del pavimento sotto i piedi e della sottile granulosità della vernice sulle pareti sotto i polpastrelli. Tuttavia, c’è chi leggerebbe la scena come accozzaglia di inquadrature casuali, e non so fino a che punto potrei contestare questa interpretazione. In effetti, la mia passione per film di questo genere ha incrinato, in passato, diverse amicizie e compromesso almeno un paio di rapporti sentimentali.

Comunque sia, tutto diventa più chiaro quando il protagonista accende la luce sopra lo specchio del bagno, cosicché noi possiamo finalmente distinguere sia i contorni del suo volto che quelli, non meno dubbiosi, della sua stanza da bagno. Questo accade al trentatreesimo minuto del film. Nei trentadue minuti precedenti, il regista e gli sceneggiatori si sono già dati da fare per presentarci il personaggio, con cui auspicabilmente ci siamo già identificati, per mezzo di immagini eloquenti ed evocative. Sappiamo (ci è stato mostrato, non detto!) che il protagonista ha un nome (Paul), un amico obeso (Bob), ed una fidanzata (Tina). Ci siamo anche resi conto dell’abissale mancanza di fantasia degli sceneggiatori nel battezzare i personaggi.
Insomma, quando arriviamo a vederlo davanti allo specchio, con le labbra contorte come per un saporaccio nella bocca, e le dita sulle tempie e poi sulle palpebre come per un’emicrania epocale, possiamo praticamente dire di conoscere Paul, la sua vita sconclusionata e caotica, la sua condizione esistenziale di pesce fuor d’acqua – acqua che non si sa bene dove o quando sia. Il prolungato primo piano ci dà anche l’opportunità di leggere i due adesivi che Paul ha incollato sullo specchio: uno dice “è pericoloso sporgersi all’interno”, l’altro: “C’est pas moi!”. Sappiamo anche che Paul nutre grandi aspettative per questa notte, alimentate da un dialogo in cui Bob (personaggio, per la verità, del tutto bidimensionabile ed ascrivibile allo stereotipo del nerd arrapatissimo il cui unico rapporto con l’altro sesso si consuma sulle pagine di siti internet dai nomi fortemente evocativi) ha veemente sostenuto come la misteriosa donna con cui Paul ha appuntamento sia oggettivamente una gran fica. Allo stesso tempo, e non so se considerarla una falla o un pregio della sceneggiatura, tendiamo a far nostri i dubbi che animano Paul, il quale non ha alcuna esperienza di appuntamenti al buio.

La motivazione che muove il personaggio ha ovviamente a che fare con il suo rapporto con Tina, e questo ci viene chiarito fin da una delle prime sequenze del film. Paul e Tina conversano su un motorino in corsa. La ragazza, attraente senza essere vistosa, è appena uscita dal lavoro. Paul lancia il mezzo in un forsennato slalom nel traffico, dando fiato al clacson e bruciando i semafori, lei lo rimproverava strillandogli nelle orecchie e colpendolo alla schiena, ma mai troppo forte. La ragazza lamenta poi le cattive condizioni del mezzo. Suggerisce al fidanzato, con una veemenza che suona d’abitudine, di trovarsi un lavoro e di cambiare quel vecchio catorcio. Al che la macchina da presa indugia su ogni ammaccatura sulla carrozzeria di plastica nera, su ogni crepa e rigatura, sul posto vuoto lasciato dallo specchietto destro. Paul commenta ciascuno di questi danni con la commossa memoria di come l’ha procurato, nel corso di sette anni, rivelando un grande attaccamento alle due ruote che si portava dietro dall’adolescenza. Ci rimane l’impressione che Tina sia troppo carina, premurosa e perbene per risultare soddisfacente in una come quella di Paul; una vita coperta di ruggine e graffi, ma che si tiene alla larga da autolavaggi e carrozzieri. E che, a dispetto di tutti, continua a funzionare.

Grazie a Dio, dopo questa mezz’ora paurosamente convenzionale, il film assume il tono che piace a me: quello allucinante.

Infatti quando Paul scende per strada dopo una lavata sommaria – molto sommaria – quando si chiude alle spalle la porta del condominio, e lancia uno sguardo poco convinto alla via deserta, al suo fedele scooter, legato con un catenaccio rugginoso al palo d’acciaio che sostiene il cartello “divieto di sosta”… rimane con lo sguardo fisso, le mani immobili, mentre la sigaretta gli si consuma tra indice e medio. Esplora, con gli occhi, tutti i difetti della carrozzeria, ritrovandoli mirabilmente al loro posto. Arriva, perfino, a frugarsi nervosamente nelle tasche, ad infilare la chiave nella toppa della sella del motorino, che si spalanca, rivelando i due caschi che gli sono familiari. Eppure qualcosa non va – l’attore protagonista è grande nel disegnarsi quest’espressione di incredulo dubbio sulla faccia, espressione che è un po’ il correlativo oggettivo dell’intera vicenda narrata nel film. Lo scooter è diventato verde. Voglio dire, è sempre stato nero, e noi lo sappiamo, l’abbiamo visto nero in tutte le scene precedenti. Ma ora, pur essendo a tutti gli effetti lo stesso motorino, è diventato verde. British racing green, per la verità. E non è come se qualcuno avesse sommariamente spruzzato del colore con delle bombolette di vernice, anzi. Per accertarsene, Paul arriva ad un gesto che evidentemente gli costa molto: estratta la chiave dalla toppa della sella, la utilizza per rigare il fianco dello scooter. L’inquadratura indugia, a questo punto, sul portachiavi in metallo argentato, raffigurante uno sghignazzante teschio con addosso un cappello da curato. Subito il dettaglio si sposta sulla nuova ferita della plastica, che non è verde solo in superficie, ma anche in profondità.

Scuotendo la testa, Paul sputa a terra. Paul ci è stato presentato, finora, come un tipo, se non completamente razionale, a suo modo pragmatico. Un tipo, insomma, che non ama supporre improbabili convergenze tra i misteriosi segni bianchi sulla copertina di The Idiot (1977) e lo scioglimento dei New Order, tra i teleobiettivi preferiti da Stanley Kubrik e l’allunamento del ’69, tra l’FBI, Walt Disney e i messaggi subliminali ne La Sirenetta (1992). Un tipo, di contro, che trovandosi di fronte alla sella aperta non dimentica che il motorino, verde, nero o a pois, va pur sempre a benzina. Così non manca di svitare il tappo del serbatoio per controllare il livello del carburante secondo il tradizionale metodo che, fin dagli albori dell’umanità, ha contribuito all’incendio e all’esplosione di un numero in calcolato di veicoli a scoppio. Ovvero facendosi luce con l’accendino, avvicinando la fiamma alla bocca del serbatoio. Naturalmente, nel film, lo scooter non salta in aria e Paul non viene ricoverato con gravi ustioni al volto, anche perché di benzina, nel serbatoio, non ce n’è.

«Che serata di merda», commenta Paul sputando nel mezzo della strada deserta. Guarda nervosamente l’orologio, sta accumulando ritardo. Si allontana per la strada vuota, che muore in un cantiere dalle recinzioni arancioni. E’ apprezzabile, a questo punto, la scelta della fotografia: un singolo carrello in alto abbraccia Paul di spalle, la voragine dietro le palizzate del cantiere, che occupa un’intera piazzetta circolare all’incrocio tra quattro strade, e, dall’altra parte, le luci al neon di un distributore di benzina. Paul passa ai piedi di un cartello che annuncia la costruzione di un parcheggio sotterraneo. Attraversa la strettoia pedonale tra le vetrine di negozi chiusi e la recinzione; intravediamo l’entità della voragine di terra nera e cemento, una gru immobile, le fauci di una ruspa, minacciosamente quieto. Incrocia tre uomini vestiti d’arancione, e due vecchie. Arriva al distributore. Sotto la luce gialla, livida, irreale, il sorriso di un vecchio benzinaio in tuta e cappello da baseball. I pugni piantati nei fianchi, sembra stia aspettandolo proprio Paul. Senza che quest’ultimo dica niente, il vecchio inizia a colmare di carburante una tanica da cinque litri, continuando a fissarlo con un invariabile ghigno.

«Tenete aperto fino a tardi, eh?», domanda il nostro, un po’ sconcertato.
«Tutto quello che deve succedere», risponde il vecchio, gli occhi nascosti dal frontino puntati sulla strada morta, «succederà stanotte.»

Campo totale sul distributore. Paul paga frettolosamente e se ne va con la tanica in mano.

Ripercorre la strettoia, incrociando tre vecchie e quattro uomini vestiti d’arancione. Inizia anche a piovere. Due cinesi affiggono un manifesto senza disegni, coperto d’ideogrammi, sopra una saracinesca abbassata e imbrattata di tag smunte. Paul tira dritto verso il cartello di divieto di sosta dov’era parcheggiato lo scooter, che naturalmente non c’è più. La catena, beffardamente, è ancora al suo posto. Intatta. Ma il motorino non c’è più. Paul posa la tanica a terra, rimane perfettamente immobile. Gocce di pioggia gli scendono sul viso; non sapremo mai se sta piangendo. Alla fine di toglie di tasca il pacchetto di sigarette, solo per trovarlo vuoto. Così se lo lancia dietro le spalle, mentre riprende a camminare tra l’asfalto e la pioggia. Un uomo incappucciato in una sorta di tela cerata arancione raccoglierà quello stesso pacchetto da terra, ne estrarrà una sigaretta e, la schiena contro il cartello “divieto di sosta”, se la accenderà. Secondo un espediente noto all’estetica del film noir, la luce dell’accendino rivelerà nuove ombre sul volto dello sconosciuto. Ma a quel punto, Paul sarà già troppo lontano per notarlo.

La scena successiva si svolge sottoterra. Paul è sceso in una stazione della metropolitana; anche qui c’è pochissima gente: una vecchia cinese e due uomini che sostituiscono i cartelloni pubblicitari di un deodorante con quelli di un musical indiano. Benché il musical sia indiano, il cartellone è coperto di ideogrammi cinesi. A questo punto, Paul nota che tutti i cartelloni pubblicitari sono in cinese. Lancia un’occhiata ad uno schermo al led, che recita: prossimo treno, 14 minuti. C’è tutto il tempo per una pisciata, deve dirsi Paul, perché si avvia verso i cessi.

Due uomini muscolosi in canottiera a righe e cappello da marinaio si zittiscono improvvisamente quando Paul apre la porta della toilette. Paul nota un paio baffi neri, eccessivamente lucidi, ed un silenzio meno imbarazzato che imbarazzante. Almeno per Paul, che si riallaccia la patta, si allontana dall’urinale ed entra in un cacatoio assicurandosi di chiudere bene la porta. Minge, e la pisciata dura abbastanza perché la macchina da presa esiti sulle scritte che ricoprono i muri. Ci sono insulti e numeri di telefono. Ci sono minacce e risposte in colori diversi. Scarabocchi a tema fallico, prefissi di cellulari e telefoni fissi, come un elenco, come un insieme di riferimenti bibliografici a una biblioteca occulta.

«Ma perché cazzo non me ne sono rimasto a letto.» si domanda Paul, tirando mentre l’acqua dello sciacquone scompare in un vortice.

Tornato al binario, il nostro nota che il led segna ora 16 minuti al prossimo treno. «Ma che diavolo…?» Due cinesi, frattanto, infrangono con una spranga il vetro che protegge la bacheca pubblicitaria, e, con una rapidità furtiva, sostituiscono al cartellone del musical indiano un poster senza disegni, coperto di ideogrammi stampati in arancione.

Non appena escono di scena, il treno entra in stazione. Il led segna ora il numero zero. Le porte scorrevoli del vagone si spalancano giusto di fronte a Paul, che entra con una certa titubanza.

Paul prende posto posando a terra la tanica di benzina. Il vagone è deserto, il pavimento, cosparso di giornali free-press. Paul ne raccoglie uno, che titola: «Emergenza ciclomotori: è boom dei furti». Paul bestemmia e volta la pagina con una rabbia annoiata. In fondo al giornale, legge l’oroscopo.

«Le stelle vi invitano a dedicare il vostro tempo all’amore e all’appagamento dei sensi. Affari e viaggi nascono sotto ottimi auspici.»

«Stronzate!», tuona Paul, e gira di nuovo pagina. Lo spazio culturale è principalmente occupato dalle colonne di un articolo con un vistoso errore grammaticale nel titolo: «In mostra il celebre artista pecinese». Incuriosito, Paul legge ad alta voce l’articolo, che non specifica né il nome, né il tipo d’arte praticata dal “noto artista”. In effetti, l’articolo tratta la Cina, la mostra, e l’arte in generale in termini talmente vaghi da far dubitare della benché minima familiarità dell’autore con uno qualsiasi di questi concetti. L’ambiguità dello scritto è talmente fastidiosa che Paul sta per stracciare il giornale, quando nota che l’unica foto che correda l’articolo rappresenta la cella di un carcere, il cui unico arredo è il poster di un musical indiano, ma coperto di ideogrammi cinesi. Paul allora strappa l’angolo della pagina in cui è riportato l’indirizzo della galleria d’arte in questione, se l’infila in tasca, e poi richiude il giornale. Confronta la data sulla prima pagina con quella sul quadrante del suo orologio da polso. Il quotidiano è del giorno prima.

Paul scende ad una seconda stazione della metro. Dall’altra parte della banchina, un treno sta partendo in direzione opposta. Ma quando entrambi i treni se ne sono andati, Paul nota un terzo binario nella stazione. Non c’è una banchina per raggiungerlo, eppure sta lì, lucido, e corredato da gallerie oscure. «Scusi, dove porta quel binario?», domanda Paul ad un addetto dei trasporti. «E che ne so io», risponde l’altro, mentre smanetta con un pannello di comandi sul muro, «non può controllare sulla cartina?»
«Ma la cartina dice che di qui passa una sola linea della metropolitana.»
«Infatti è così.»
«Ma allora…?»
«Allora, se la cartina dice così, è così. E lei chi cazzo sarebbe? Come si permette di presentarsi qui, a quest’ora della notte, a porre domande che non la riguardano?» La voce è alterata, stridula, quasi un falsetto.
«Senta, era soltanto una curiosità…»
«Ma perché non se ne torna a casa sua, piuttosto? Ma si è visto in faccia? Lei puzza. Mi fa schifo solo a guardarla. E non mi tocchi! Non mi metta le mani addosso! Lurido pezzente! Sicurezza! Sicurezza!»
L’eco di uomini in corsa rimbomba nel corridoio sotterraneo, sempre più vicino.
«Lei è completamente fuori di cervello!»
«E lei è una merda! Merda! Viene qui a fare che? Ad insegnarmi a lavorare? Il mio lavoro? Proprio lei? Parassita! Nullafacente di merda!»
L’uomo sta per strangolare Paul, quando i due ragazzi dell’azienda di trasporti arrivano di corsa. Lo prendono per le braccia e lo trascinano via, mormorando scuse indistinguibili a proposito di nervi e turni notturni. «Si crede meglio di me? Non è nemmeno capace di pisciare dritto! Disoccupato! Checca del cazzo!»

La testa dell’uomo è paonazza ed urlante ed abbandonata sulla spalla destra, e solo un attimo prima che scompaia, trascinata dietro una porta riservata al personale, Paul riesce a distinguervi un inquietante strabismo, e peggio, un paio di baffi neri ed eccessivamente lucidi.

Paul cammina per una strada buia, la tanica di benzina nella mano destra. A tratti, con l’indifferenza del lampo, fari di automobili passano e scompaiono nella notte. I marciapiedi sono puntellati simmetricamente di paletti d’acciaio. Ai paletti sono legate catene, alle catene, lucchetti serrati e intatti. Ma nessun motorino. Neanche un singolo scooter.

Paul gira l’angolo; s’imbatte in una camionetta dai colori militari, attorno alla quale un crocchio di quattro frati francescani sta fumando e sghignazzando.
«Scusate, fratelli, non avreste una sigaretta?»
«Ma certo, figliuolo; prendi un’Abbazia Strong!» Al che la macchina da presa inquadra il frate con la luce circolare di un lampione dietro la tonsura, mentre solleva il pacchetto di fronte a Paul in un gesto che sa tanto di eucarestia quanto di televendita. L’obiettivo stringe quindi su una delle immagini a mio avviso più significative dell’intera pellicola: il pacchetto di Abbazia Strong. La confezione color crema è decorata dal ritratto di un francescano in sandali e saio, confortevolmente bonario nella sua pinguedine, che solleva indice e medio della mano destra in un benevolo saluto, mentre con la sinistra distribuisce, a mo’ di corpus Christi, sigarelli artigianali a tre fanciulli festanti. Sotto l’illustrazione, anziché le solite avvertenze tipo “Il Fumo Uccide” o “Fumare Causa lo Scioglimento dei Ghiacci”, il pacchetto ammonisce: “Ama la Vergine Maria!”.

«Le piace la sigaretta?» domanda il frate a Paul.
«Ah, certo… veramente io pensavo che… beh, insomma, voi…»
«Che ai servi di Dio fosse proibito il sapore del tabacco?» E scoppia una clericale risata.
«E’ un errore teologico assai comune», interviene un fraticello più giovane, «ma in fondo, non renderemmo un buon servigio al Signore discriminando il tabacco dagli altri verdeggianti frutti che Egli ha tanto generosamente distribuito sulla terra…»
«Vede, fu nell’anno di Grazia MDCCLI che Fratel Nico, di ritorno da una missione nel Nuovo Mondo, sottopose al soglio pontificio un tabacco di tale pregevolezza da commuovere Sua Santità.»
«Da allora, le sigarette Abbazia Strong hanno perpetrato l’opera di Fratel Nico, elevando il tabagismo a conforto del givinetto e a veicolo lodevole della Parola.»
«Le vie del Signore sono infinite.», aggiunge il quarto frate, che non ha aperto bocca fino a quel momento.
«Usate le sigarette per convertire nuovi fedeli!?»
«Soprattutto nelle Afriche, caro giovanotto. Pensate che vi sono villaggi, laggiù, in cui i bambini non hanno mai visto un pacchetto di sigarette!»
«Terribile.»
«Altroché. D’altronde, in quei luoghi remoti, la scoperta del fuoco è talmente recente che è facile acquistare una miniera di diamanti, quando si è disposti a scambiarla con un accendino nuovo.»
«E lei, giovanotto, non vorrebbe donare qualcosa a questa povera nigrizia, che si consuma di fame sotto il sole ardente?»
«Beh, io…»
«Quella tanica, ad esempio. Non contiene forse del carburante?»
«Sì, padre.»
«E allora, suvvia, fratello mio, ne versi il contenuto nel nostro serbatoio, poiché lunga è la strada che conduce al regno dei Cieli, e noi non siamo che pellegrini di passaggio.»
«E questo sarebbe il vostro pulmino parrocchiale?», domanda Paul fissando l’enorme mezzo mimetico.
«Le vie del signore sono infinite», ripete il quarto frate, mentre si cura i denti con la punta di un coltello a serramanico.

Con una scrollata di spalle, Paul vuota la tanica nel serbatoio del fuoristrada militare. «Ad ogni modo», mormora tra sé e sé, «questa benzina non mi serve più a niente. E quella sigaretta era davvero buona».
«Padre», chiede infine Paul al frate più anziano, mentre gli altri prendono posto in vettura, «le capita mai di vedere… segni? Segni che le sono messi davanti agli occhi. A cui non riesce a dare un senso.»
«Caro figliolo», risponde il sacerdote, una mano sulla spalla di Paul, «i segni sono dappertutto. Basta saperli vedere.»
«Ma che cosa rappresentano, padre? Cosa significano?»
«I segni sono infiniti, ragazzo, e misteriosi. Ma il significato, il significato ultimo, è uno soltanto.» Ed indica il cielo muto sopra la città.
«E’ come se stesse accadendo qualcosa, Padre. Qualcosa di grosso, proprio attorno a noi. E’ qui ed ora, e non ho la minima idea di che cazzo sia.»
«E ti spaventa, non è così? Abbi fede, figliolo. La fede è la risposta, e l’unica alternativa alla paura.» Il frate mette in moto il mezzo e passa un biglietto da visita a Paul attraverso il finestrino abbassato. «Ora devo andare, Paul. Ma prendi questo; se avrai ancora dubbi, vienici a trovare. Troverai la porta aperta.»

«Preti!», mormora Paul mentre la targa dell’esercito scompare nell’oscurità. «Sempre pronti a seppellirti di stronzate!» Poi lancia un’occhiata al bigliettino da visita. E’ coperto di ideogrammi.

Paul lo straccia, e riprende a camminare. Sirene di vigili del fuoco in lontananza. Un vociare indistinto. Poi, l’inconfondibile odore di bruciato. Dopo alcuni passi, viene travolto da una dozzina di uomini vestiti d’arancione, che lo investono nella loro corsa, lasciandolo a terra, e scomparendo all’orizzonte. Paul si rialza, si spolvera, raccoglie la tanica di plastica ormai vuota. Girato l’angolo, vede il capannello di curiosi, i getti poderosi degli idranti, le fiamme che salgono da una vetrina infranta, fino a lambire un’insegna già mezza carbonizzata, che dice: “la Grande Muraglia”. Paul rovista nelle tasche fin che non emerge un lembo strappato di carta di giornale. Confronta l’indirizzo sul pezzo di carta con quello della “Grande Muraglia”. Corrispondono.

«Senta, ma quel posto… quello che sta andando a fuoco… non era per caso una galleria d’arte?», domanda Paul a una vecchietta di passaggio.
«Arte? Nossignore. Quella era una motofficina. Altro che arte! Dio solo sa che affaracci organizzavano quei cinesi, là dentro.»
«Una motofficina di cinesi!? Con quel nome? Ma è proprio sicura, signora?»
«Senta, giovanotto, abito qui da cinquantatre anni, e perdiana, conosco la gente che gira da queste parti. A lei, ad esempio, non l’ho mai vista. Che ci fa da queste parti? E che diavolo ha in mano? Una tanica!? Criminale! Polizia! POLIZIA!»

A questo punto del film, il regista ha voluto inserire una scena – una caduta di stile, secondo me – in cui Paul viene inseguito da una banda di cinesi inferociti, armati di spranghe, fiaccole, e perfino qualche forcone. E’ una classica sequenza slapstick che vanta innumerevoli precedenti, ma nella fattispecie, non mi pare faccia così ridere. Anche perché, naturalmente, per quando Paul corra a gambe levate, non riesce ad evitare di buscarle. Piuttosto inspiegabilmente, il linciaggio gli viene risparmiato. I cinesi si limitano a spaccargli la faccia, e ad un tratto, senza alcuna ragione apparente, lo abbandonano sanguinante in un vicolo, disperdendosi nel più perfetto silenzio. Vediamo alcuni di loro calarsi in un tombino, un paio si arrampicano su un lampione.

Nella scena successiva, Paul, ridotto ad una maschera di sangue, entra nel bar in cui aveva appuntamento con la donna. Le luci sono quasi tutte spente. Il locale è completamente vuoto, fatta eccezione per il barman con un occhio di vetro ed un unico cliente, seduto al bancone. Tra i due sta quella che appare come una statuetta di bronzo, ma non appena Paul mette piede nel pub, il barman la copre di scatto con un sacchetto di juta.

«E lei che vuole?», domanda a Paul.
«Ho appuntamento con una donna», risponde lui.
«Qui non c’è nessuna donna, come può vedere. Ed anche se ci fosse, se la darebbe a gambe a vederla conciata così.»
«Senta, è stata davvero una nottata di merda. Mi lasci almeno dare una sciacquata nel bagno, e poi me ne andrò.»
«D’accordo. Ma veda di non sporcare tutto di sangue. Quel cesso è già un bel merdaio per conto suo.»
«Gentilissimo.» risponde Paul.

Mentre si sciacqua il volto tumefatto, il nostro sente il barman e l’unico cliente contrattare su un prezzo, apparentemente piuttosto alto. Quando esce dal bagno, l’oggetto sul bancone è scomparso, ed il barman appare più rilassato.

«Beh, addio allora.», lo saluta Paul.
«No, ehi, amico, perché non ti siedi un attimo? Prendi un bicchiere, offre la casa. Magari la tua amichetta arriverà tra un po’.»
«Magari se n’è già andata da un pezzo.»
«Questo no davvero. Sono stato qui tutta la sera. Se entrava una donna senza compagnia, sta sicuro che la notavo. Avanti, prendi una sedia.»
«E va bene.»
«Ma che ti è successo?», domanda l’altro cliente, la voce stridula, il volto celato dall’oscurità.
«Beh, se proprio lo vuoi sapere, una banda di cinesi mi ha inseguito e picchiato a sangue. Mi hanno preso per un piromane.»
«Maledetti musi gialli! Non vuoi chiamare la polizia?»
«Ha! Credo mi sbatterebbero subito al fresco.»
«E perché?»
«Ora ascoltami bene, amico. Io non so che cazzo mi stia succedendo, questa notte. Tutto quello che volevo era incontrare questa donna, che tra l’altro non conosco affatto. Pensavo di cogliere l’occasione, bere qualcosa con lei, e poi chissà. Ma mi hanno fregato il motorino. E prima di questo l’avevo visto cambiare colore. Quindi ho preso la metro, e un finocchio vestito da marinaio mi ha seguito, non so come diavolo abbia fatto, forse con una linea segreta della metropolitana, fatto sta che quando sono sceso dal treno era già là, travestito da ferroviere. E come se non bastasse, ho incrociato preti con un camion dell’esercito, e sigarette cattoliche, ed ideogrammi e poster di musical cinesi, anzi, indiani… ed infine mi hanno anche menato! Lo so, lo so, sembra ridicolo anche a me. Ad ogni modo, l’ultima cosa che intendo fare, ora, è andare a chiacchierare con gli sbirri. Mi sbatterebbero al fresco per vagabondaggio, come minimo, o in manicomio.»
«E farebbero bene.», commenta l’altro avventore. «Dimmi, da quanto tempo soffri di paranoia?»

Paul, a questo punto, fissa il fondo del bicchiere, ma rimane completamente calmo. «Paranoia? No davvero. Non io, per lo meno.»
«E perché no? Eppure questa città ci offre un sacco di spunti per una teoria del complotto. Abbiamo telecamere, ora, con la scusa del traffico e delle banche. Obiettivi puntate sulle strade, agli ingressi della metropolitana, 24 ore al giorno; abbiamo autobus con la scatola nera, e sbirri in tenuta antisommossa anche quando non sta succedendo niente. Vigili urbani a cavallo, certo, ed intercettazioni telefoniche, impronte lasciate dal bancomat e dal gsm su circuiti elettronici perfettamente tracciabili. C’è il gergo non così segreto dei politici corrotti e quello, ancora più incomprensibile, degli indici di borsa. E ci sono questi giornalini stampati male e scritti peggio, ci seppelliscono, e titolano con negri che stuprano dodicenni e coreani che evadono le tasse e mafiosi che sparano col mitra dalla finestra del carcere ammazzando i poveri stronzi che camminano per strada.»
«E’ vero», risponde Paul, «la paranoia è ampiamente pubblicizzata. Ci sono spot in cui la fanno vedere, è una stanza confortevole in cui puoi rinchiuderti, è soffice e ovattata e fatta su misura per te, esattamente come una tomba. Ci sono ditte specializzate che per un modico prezzo mensile ti costruiscono attorno la tua personale teoria del complotto.»
«La paranoia semplifica la vita», aggiunge il barman scrutando la strada deserta in uno schermo da dieci pollici in bianco e nero, «perché riduce la complessità dell’universo. Ogni evento, anche il più complesso, diventa lineare, e tutte le linee convergono verso un unico punto: il buco del tuo culo.»
«Riesci sempre a volgarizzare tutto, tu!», si indigna il cliente dalla voce stridula. «Tutto si riduce a buttarlo nel culo e a cercare di non prenderlo.»
«Perché, che altro c’è, oltre a questo?»
«Ci siamo Noi, ci sono Loro, e c’è una lotta che va ben al di là della tua sopravvivenza, della tua integrità anale, coinvolge ogni aspetto della tua vita organica ed intellettuale, a tutti i livelli. La paranoia non è un sottoprodotto dell’individualismo, ma la sua pietra d’angolo, lo scintillante motore della società occidentale.»
«La paranoia», sospira Paul, «è soltanto un’altra metanarrazione.»
«Non so che diavolo intendi dire.»
«Che richiede fede. Non puoi nemmeno sfiorare l’idea di essere al centro di una cospirazione, senza un’incrollabile fede in te stesso.»
«E tu non credi in te stesso?»
«Per niente.»
«Sporco comunista!» urla l’avventore, e getta una manciata di monetine sul bancone, mentre si infila il cappotto. «E in che cosa credi, allora?»
«Credo che se una farfalla sbatte le ali in amazzonia e contemporaneamente un terremoto distrugge Tokio, la farfalla non è parte di una cospirazione contro il Giappone, né il terremoto è parte di una cospirazione contro la farfalla. Possiamo supporre un rapporto di causa ed effetto tra i due eventi, così come tra il furto del mio motorino e tutti quei cinesi. Ma non sappiamo il motivo di questo rapporto, non ne abbiamo la minima idea, e non arriveremo mai nemmeno vicini a sfiorarne il significato.»

Il bevitore scuote la testa, si mette un cappello in testa, raccoglie da terra un sacchetto di juta, non senza un certo sforzo, ed esce dal bar, senza dire una parola. Prima che la porta sbatta alle sue spalle, Paul fa in tempo a notare i suoi baffi neri, ed eccessivamente lucidi, nel riflesso della luce della luna.

«E’ davvero così che la pensi, amico?»
«Direi di sì.», risponde Paul scolando l’ultimo sorso di brandy.
«E allora», fa il barman con aria amichevole, «ti consiglio di non perdere altro tempo qui. Quella donna non verrà. Non sei ancora pronto per incontrarla.»

C’è una certa violenza sullo spettatore, da parte del regista, nel caricare la storia di così tanta aspettativa e di troncarla deliberatamente senza dare alcuna spiegazione plausibile, per di più inserendo un dialogo tanto credibile quanto modesto. C’è un sostanziale sadismo nel voler girare un film volutamente insoddisfacente per chi lo guarda, e non credo siamo in molti ad apprezzarlo.

Comunque, è solo poco prima di scendere nuovamente i gradini della fermata della metro, che Paul lancia finalmente uno sguardo al cielo, notando che la luna è piena, e orrendamente rossa. Ma a quel punto, gli echi dell’inarrestabile marcia dei motorini e degli uomini arancioni ha già iniziato a rimbombare tra i palazzi, a scuotere le traballanti fondamenta della città, come un cerchio che dalle baraccopoli, dai cadenti palazzoni delle periferie, si stringe verso il centro, per le strade e per i vicoli, compatto come una muraglia, nel rombo di motori a due tempi e marmitte truccate, più forte, sempre più forte…