Belial coltiva, tra gli altri, il vizio della scrittura. Ha scritto i romanzi Saxophone Street Blues (2008, Las Vegas) e Making Movies (2009, Las Vegas).

domenica 26 aprile 2009

Racconti: Una Sera al Drive-in

Una divertita belializzazione dell'omonimo racconto di Andrea Malabaila. [Pdf]


El Niño aveva appena fatto saltare le cervella di Jason Smith ed attivato il detonatore che avrebbe inizializzato l’esplosione delle Manifatture Smith Ltd. quando mise piede nel California Snack Bar. Il killer professionista, unico cliente nel locale in chiusura, si presentò come Earl Grey, esattore fiscale. Ordinò una birra ghiacciata e quell’ultima fetta di crostata alle ciliegie che la cameriera, una rossa, avrebbe altrimenti dovuto buttare.

Joe Badalamenti aveva avuto un’autentica giornata di merda. Aveva guidato il camion per 400 fottute miglia, nella pioggia e nella polvere, chiuso in una motrice puzzolente tappezzata di pin-up ritagliate dai più sudici giornaletti d’America, eppure tenendo sotto gli occhi l’unica foto che presentasse una donna vestita, ovvero la sua ragazza, Stella Robertson. Gli mancava giusto un pugno di miglia per tornare a strizzare quella fichetta quando un lurido sbirro aveva partorito la pensata di fermarlo per eccesso di velocità. Porca troia! Badalamenti l’avrebbe preso a calci, lo stronzo, ristrutturandogli la testa col cric, e l’avrebbe fatto, perdio, se il poliziotto, vedendolo saltare giù dalla motrice, due metri di cristiano con un diavolo per capello ed una spranga d’acciaio deforme salda nella mano destra, non si fosse pisciato sotto, lasciando ripartire il camionista con un semplice ammonimento.

Stella Robertson aveva venticinque anni, un sottopagato lavoro al banco del California, ed un fidanzato che stava accumulando un notevole ritardo sull’orario fissato per l’appuntamento. Così, quando il cliente vestito da becchino si presentò con un nome britannico ed un biglietto da visita con simboli ministeriali, l’idea di vendicarsi di Joe le sembrò inevitabile quanto la morte e le tasse. Servì Grey con un sorriso che avrebbe soddisfatto le curiosità di un odontotecnico, e che non venne meno neanche quando notò la macchia di sangue sul suo colletto. Non le importò, a quel punto, della bugia di Grey a proposito di un incidente di rasatura, ma della sua mano, della rapidità e della forza con cui aveva afferrato quella di lei prima ancora che riuscisse a sfiorargli la camicia, senza lasciarla andare, nemmeno quando Joe entrò sbattendo la porta a vetri.

Mentre parcheggiava di fronte al California Snack Bar, mentre, attraverso la vetrina, gli toccò di vedere quella troia della sua donna fare la scema col primo stronzo che passava per una birra, Joe Badalamenti ricordò le parole che suo padre gli aveva ripetuto per anni, e forse per la prima volta riuscì ad afferrarne il significato profondo. «Quando vai con le donne, non dimenticare il bastone». La mano di Stella era ancora in quella dello stronzo in giacca e cravatta quando Joe tirò fuori il machete.

La nuova Buick Special quattro porte morì ancora tre volte prima che Rupert Blavatski riuscisse a parcheggiarla correttamente al drive in. Ricordò le parole che suo padre gli aveva ripetuto per tutto il giorno, prima di prestargli l’automobile fresca di concessionario: «Andare con una donna non è diverso dall’andare in macchina. Certo, se non riesci nemmeno a mettere in moto…». Il volante, ora, gli tremava sotto le mani, le lenti degli occhiali erano appannate di un sudore che il sontuoso impianto d’aria condizionata non riusciva a raffreddare. Tentò di calmarsi, ma mentre cercava di spegnere l’autoradio dalla quale Bill Haley continuava ad urlare il suo ingenuo rock ‘n’ roll gli partì un colpo di clacson che gli valse più di un’occhiata feroce dagli abitacoli vicini. Sullo schermo comparve il titolo del film: Donne-Gatto della Luna. Seduta al suo fianco, Susy Smith infilò gli occhiali 3D realizzando che il primo appuntamento con Rupert correva seriamente il rischio di essere anche l’ultimo.

Stella lanciò un grido mentre la lama di Joe calava su El Niño, ma il killer, rapido come l’inferno, riuscì a schivare il colpo, la lama penetrò nel legno del bancone, mentre El Niño castigava il camionista con un destro sulla mandibola e un calcio ben assestato in pieno stomaco; il povero diavolo non aveva ancora fatto in tempo a piegarsi in due per il dolore che già l’assassino aveva estratto la pistola puntandogliela dritta alle palle. «Ti do trenta secondi per portare il culo fuori dalla mia vista, amico». Joe ne impiegò ventisette, per far uscire la motrice dal parcheggio del California; per allora, la lingua di Stella Robertson stava già saldamente nella gola del killer.

Le lenti bicromatiche degli occhiali 3D rendevano Rupert sostanzialmente cieco, ma non occorreva guardare il film per capire che si trattava di una stronzata. Del resto Rupert comprendeva che non era un problema di diottrie o di quelle ridicole tute spaziali, il problema era il silenzio che lo divideva da Susy, Cristo santo, doveva pur dirle qualcosa, ma cosa? Il discorso sull’eccitante possibilità di colonizzare la luna non aveva riscosso l’interesse della ragazza, e del resto Rupert era arrivato a credere che a Susy non importasse poi molto della fantascienza; certo leggeva molto, ma che genere di libri? Magari aveva letto anche lei quel racconto di Checov in cui uno stalliere non riesce a confessare il suo amore alla ragazza, anzi lo dichiara ma in seguito non riesce ad agire oltre, beh forse non era veramente uno stalliere ma il succo era che a causa della sua timidezza i due vivevano vite separate ed insipide ed un bel giorno si ritrovavano vecchi ed incapaci di amarsi, e mio Dio! Che Susy avesse letto quel racconto o meno, non era certo il caso di parlargliene! Così Rupert attaccò un discorso paranoico sull’aria condizionata della Buick.

El Niño guidava una Porsche 356 American Roadster nera, e Stella non se lo fece ripetere due volte, prima di chiudere il locale e saltarci dentro. Fuggivano nell'ombra della sera d’estate, rinfrescata dai pini che scorrevano lungo la strada, entrambi immersi nei propri pensieri – lei cercava di ricordare la programmazione del drive in, lui di immaginare come si sarebbe sbarazzato della ragazza dopo averla portata a letto - così non si accorsero che Joe li aspettava al bivio, né che la motrice si era lanciata all’inseguimento della Porsche, guadagnando rapidamente terreno, nessuno dei due ci fece caso, fino a che Joe non li tamponò violentemente.

«Sai, Susy, questo sistema di aria condizionata che montano su tutte le Buick, è sviluppato separatamente dalla vettura, presso stabilimenti segreti nell’Oregon e brevettato in tutti i paesi del mondo. Ora, come mai tanta segretezza attorno a un sistema per rinfrescare l’aria? Supponiamo per un istante che non sia progettato esclusivamente per rendere la guida più confortevole. Immaginiamo le sue tubature interne, costantemente refrigerate, e sagomate in modo da costituire il perfetto habitat per una coltivazione artificiale di potenti bacilli portatori di una malattia mortale. I bacilli maturi sono espulsi automaticamente dal condizionatore, diffusi nell’abitacolo, inspirati dal conducente e dai passeggeri, cioè da noi, Susy, da me e da te. E provocano una forma incurabile di polmonite fulminante latente, che può ucciderci in un istante e del tutto casualmente tra dieci anni o diciassette secondi, così, senza che ci si possa fare assolutamente niente… se fosse così, Susy, se fossimo ormai condannati dal complotto farmaco-sovietico-automobilistico internazionale, non mi baceresti? Non mi baceresti ora? Perché potrebbe non esserci una seconda occasione». Susy era ancora immobile con l’incertezza sulla mandibola pendente quando l’esplosione della fabbrica di suo padre insanguinò l’orizzonte.

Joe sghignazzò sadicamente mentre la fuoriserie usciva di carreggiata sollevando un nuvolone di polvere. Ma El Niño non era ancora fuorigioco: il killer si aggrappò al volante e riuscì a riportare le gomme sull’asfalto, mentre Stella urlava e sanguinava dal naso. Joe allora tornò a premere sull’acceleratore, ma questa volta lo scatto della fuoriserie la salvò dallo speronamento. L’insegna al neon del drive-in si stagliava tra la vegetazione, eppure lo sguardo del killer non era più rivolto alla strada, ma fisso sul volto dell’avversario, che ora lo affiancava sulla corsia di sorpasso, tamponandolo di lato, mentre il duello raggiungeva l’apice della velocità. El Niño voleva vederlo in faccia, il becco, voleva vedere la sua paura nell’istante in cui avrebbe tirato il freno a mano.

Susy non scoppiò a piangere né si mise ad urlare, ma il fiato le si fece corto, e Rupert la sentì appena, quando gli ordinò di portarla alle Manifatture Smith. Subito. Anche da quella distanza, si capiva che le proporzioni dell’incendio erano disastrose e che le fiamme non potevano che provenire dallo stabilimento del padre di Susy. Per la prima volta Rupert vide davanti a sé quel destino manifesto di cui parlavano le antologie, sentì che una mano misteriosa gli offriva l’insperata possibilità di essere un uomo, di guidare finalmente da uomo, così trovò l'insperata forza di guardare la ragazza negli occhi e di esclamare: «Non ti preoccupare, piccola! Andrà tutto bene.» E roteando il volante col solo palmo sinistro, come se non avesse fatto altro per tutta la vita, uscì dal drive-in in retromarcia, fece fischiare le gomme nel bel mezzo della strada, e si preparò a piegare l’acceleratore a tavoletta. Ed il motore non morì, la marmitta non sbuffò, le marce entrarono una dopo l’altra, lisce come l’olio, mentre Rupert lanciava la macchina di suo padre al massimo delle prestazioni. Gli sarebbe stata sufficiente una manciata di minuti per raggiungere lo stabilimento della Smith, se il frontale con la motrice di un camion lanciata in contromano non l’avesse ammazzato sul colpo.

Dopo il freno a mano tirato all’improvviso, i tre testacoda successivi e la stridente mancia di gomma lasciata sull’asfalto, la prima immagine che Stella riuscì a distinguere davanti a sé fu la motrice di Joe. Ferma a cinquanta metri dalla Porsche di El Niño, e completamente circondata dalle fiamme. El Niño allora si spolverò la spalla destra, e rimise in moto, fermandosi per un istante di fronte alle carcasse incandescenti della motrice e della Buick bianca. «Dio mio!» disse Susy tra le lacrime, «c’erano due ragazzi, su quell’auto!».
«Non ci pensare. Sarebbero morti comunque», rispose tranquillamente El Niño, «ammazzati dall’aria condizionata». Susy si asciugò le lacrime. Lontano, ma non troppo, le sirene avevano ormai iniziato ad urlare.
«Che cosa faremo, ora?»
«Al drive-in danno Casablanca.»
«L’ho già visto… con Joe.»
«Allora battiamocela. Dicono che Tijuana sia bellissima, in questa stagione, ed è a sole duemila miglia da qui.»
L’auto imboccò l’autostrada, e fissando le linee tratteggiate perdersi nell’indistinto orizzonte notturno, ascoltando i motori e seguendo le scie evanescenti dei fanalini di coda di anime perdute sopra un fiume d’asfalto, Susy comprese che non aveva la minima idea di dove la strada la stesse portando. E per questo, per la prima volta, ringraziò Dio.

Babel Rivisitata da Francesco Spinelli


Babel: cover by *Galhad on deviantART
Francesco Spinelli ha re-immaginato la copertina di Babel per l'edizione corrente del concorso Subway Letteratura. Potete vedere le copertine qui e qui.

sabato 18 aprile 2009

Racconti Macabri: Abissi

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I.

Lasciati alle spalle la porta occidentale della città santa di Q’zar. Cammina per tre giorni e tre notti verso il tramonto: troverai il silenzioso deserto, il lungo crepaccio, e infine, la misteriosa morte. Quanto alla leggenda, l’avrai già trovata tra le mura di Q’zar.

La leggenda è estremamente chiara nel riferire fatti che nessuno potrà mai confermare. Parla di un crepaccio che divide le sabbie e di cui non si scorge la fine; di un guardiano immortale e spietato; di un abisso in cui si precipita per sempre.

Cammina lungo l’orlo del crepaccio: in principio è poco più che una linea nera che vomita formiche rosse; ma dopo alcuni giorni di viaggio, lo vedrai crescere in larghezza e profondità, fino a diventare un burrone del quale non potrai scorgere il bordo opposto, né immaginare la profondità. Incontrerai, allora, il guardiano.

Vedere questo jinn è impossibile, udirne la voce, inevitabile. Con parole suadenti o minacciose, sarai costretto o persuaso a muovere due passi verso l’abisso. I tuoi occhi conosceranno la voragine. Il tuo panico supererà ogni vertigine; sarà la più pura sensazione della morte, in cui la repulsione si mescola a un’invincibile attrazione. Nessuno, giunto a quel punto, resiste oltre. E anche tu muoverai il terzo passo, quello finale. Il tuo corpo non smetterà mai di cadere nel vuoto, e anche dopo che sarai morto, le tue ossa continueranno a precipitare in eterno.

Nel tempo la leggenda ha spinto occultisti, santi, eccentrici, diesperati, aspiranti suicidi, appestati, e semplici creduloni, a lasciare Q’zar per guadagnare il crepaccio. L’immortalità, il potere, il paradiso: alcuni vaneggiano di questi e altri premi per chi riuscirà a vincere la tentazione del jinn. Ma nessuno fa mai ritorno dalla voragine, nessuno conosce la fine dell’abisso né l’origine della leggenda.

II.

Broadway. Una finestra al cinquantacinquesimo piano del Woolworth Building. Cornici: quella in acciaio della finestra, quella in alluminio di un computer portatile, quella in mogano di una fotografia in bianco e nero. Una scrivania di betulla.
Jessie Metz stringe la mano al cliente; gli fa dare uno sguardo dalla finestra, vista spettacolare quanto pericolosa, commenta. Come sempre. Il cliente combatte per un attimo contro il suo stesso sguardo: cedere alla tentazione di guardare di sotto, le linee rette del grattacielo, il loro sconvolgente restringimento verso il basso, la convergenza verso un punto di fuga negato, annullato dall’impatto con l’asfalto, e poi puntini gialli e grigi, automobili e persone come microbi nell’infezione fulminante della vertigine – oppure – oppure non abbassare gli occhi, fingersi dèi, restringere il campo visivo all’azzurrità del cielo, al delirio d’onnipotenza dello skyline newyorkese, scintillante, come se non portasse i segni di una mutilazione orrenda…

Metz gli offrirà da bere, se vuole, poi lo farà accomodare. Non parleranno subito di soldi, naturalmente. Metz gli racconterà una storia logora e confortevole come una vecchia giacca di panno. Parlerà prima della finestra, poi delle azioni, e infine della fotografia.

Tacerà il prezzo della sua vista su Manhattan, ma lascerà intendere che l’acquisto di quell’ufficio è il lavoro di una vita che non è iniziata nella bambagia. Non si dilungherà sui buchi sotto le scarpe da ginnastica dell’infanzia, ma enumererà i suoi pacchetti azionari più forti: Google, Apple, Samsung – su quelli in perdita potrà sorvolare agevolmente, grazie all’aggiornamento in tempo reale delle quotazioni. Poi lancerà un’occhiata all’uomo nella cornice di mogano; nella fotografia in bianco e nero è seduto ad una scrivania pesante, ingombrata da una ponderosa macchina da scrivere. Alle sue spalle, una finestra ben riconoscibile. Metz indicherà l’uomo come suo nonno e l’ufficio come il suo. Parlerà della sua rapida fortuna e immediata rovina nel 1929. Aveva perso tutto, incluso il prestigioso ufficio in quello che era all’epoca il più alto grattacielo del mondo, e che ora il nipote ha riconquistato.

Il cliente non ha nome né volto. Non è nemmeno un uomo, ma una serie discreta di cifre, dollari e appuntamenti, una statistica che Metz ha raffinato per anni. Nove volte su dieci, dopo aver sentito la storia di Metz e di suo nonno, il cliente lascia l’ufficio con una sorta di sollievo, una ritrovata fiducia in qualcosa che pensava perduto e che invece Metz incarna alla perfezione. Nove volte su dieci, il cliente firma il contratto. Poi, un’ultima occhiata a quella finestra aperta su tutta l’America, una stretta di mano, e la porta che si chiude alle sue spalle.

Solo un cliente su venti, forse trenta, non firma perché crede che la storia di Metz sia inventata. Potrebbe benissimo esserlo. L’ufficio potrebbe essere in affitto, la foto, acquistata per un pugno di cent al mercato delle pulci. Non è così.

L’importante, in fondo, non è che il cliente creda o meno alla storia. Ma che non venga mai a conoscenza di tre fatti: che i vetri della finestra “spettacolare quanto pericolosa” furono infranti il 28 ottobre 1929; che attraverso quei vetri il nonno di Metz si tolse la vita in un lunedì nero; e che, con tutta probabilità, lo stesso farà il nipote, dopo che avrà perso tutto.

III.

Vedo che lei vorrebbe domandarmi di mio marito. Esita, però. Sa che Franz è un uomo famoso; immagina che mi vengano più spesso rivolte domande su di lui che su me stessa. Come se fossi condannata a sparire nel cono d’ombra della sua celebrità, non essere più considerata una donna, ma solo la moglie di.

Sì, a volte è esattamente così. Ma non si preoccupi. Non mi dà alcun peso parlare di Franz. Forse perché siamo così diversi, o lui, per me, rimane lo stesso ragazzo che ho sempre conosciuto. Non era certo famoso, all’epoca. Tutto il contrario.

Comunque, devo dirle che io non ho mai amato la montagna; la sorprenderà, questo non ha influito sul nostro matrimonio. Del resto saprà che Franz scala esclusivamente in solitaria. Né l’ho mai trattenuto dal partire per le sue imprese, fossero le Alpi o le Ande o il K2… lui ha i suoi spazi, io i miei, lei mi capisce.

Il fatto è che la montagna… l’umidità della foresta, poi la vegetazione che si dirada… diventa quasi meschina, poi scompare quasi del tutto… e infine l’aria sempre più rarefatta, l’acqua che diventa ghiaccio, il freddo pungente, il sole accecante… ecco, per alcuni è una specie di cammino verso la purezza, verso Dio, non è così? Per Franz certamente è così, anche se non lo definirei certo un religioso. Ma per me, oh no. A me sembra un cammino verso la morte. Ci pensi: ogni passo lungo la salita è un progressivo allontanamento dalle città, gli uomini, gli animali, gli alberi… la vita!

E io invece voglio vivere. Io amo vivere.

In un uomo apprezzo la profondità dello sguardo, la reticenza… e – lo ammetto – la forza fisica. In Franz queste caratteristiche sono portate all’esasperazione. Tante volte ho provato a chiedergli il motivo di tutti i suoi sforzi. L’allenamento sfibrante, i numerosi rischi, la sete di conquistare vette sempre più alte, imprese sempre più estreme… inoltre, lo sa, non è più un ragazzino… e tutto questo per arrivare sulla cima di una montagna! Lei non può immaginare quante volte gli ho domandato perché. E lo sa cosa mi ha risposto? Cosa mi ha risposto ogni singola volta? «Per guardare di sotto.»

Per guardare di sotto! Si figuri. Beh, qualunque cosa veda da lassù, di certo non lo saprebbe raccontare a parole. E del resto, riuscirei mai capirlo? Quello che so è che quando mi affaccio nei suoi occhi – ed è una vista insostenibile, a volte – veramente mi sembra di sporgermi in un abisso. Insondabile.
Ecco, mi dico allora. Ecco un uomo che non morirà tranquillamente nel suo letto.

martedì 7 aprile 2009

Websitehorror su Radiodeejay



Stasera alle 20.35 cinque minuti di Websitehorror su Radiodeejay con Laura Antonini.

sabato 4 aprile 2009

Quattro Chiacchiere con Matteo Grimaldi su Sololibri.net


Matteo Grimaldi, che ringraziamo, ha intervistato Hector Luis Belial per la sua rubrica settimanale 4 Chiacchiere (contate). Potete leggere l'intervista qui.

mercoledì 1 aprile 2009

Racconti Macabri: la Moneta, la Chimera, la Morte

Non è un pesce d'aprile ma un nuovo trionfo della morte, per tutti gli amanti del genere... [Pdf]


Questa terra desolata fu, un tempo, il regno più esteso della terra. Aveva inizio dal più estremo lembo di terra orientale, e terminava, assieme al mondo, sulle sponde dell’oscuro oceano dell’ovest. L’incandescente occhio del cielo impiegava un dì ad abbracciarlo nella sua interezza; ad un occhio umano, un’intera vita non sarebbe stata sufficiente.

Abbiamo dimenticato il nome, ma non l’impresa, dell’uomo che volle attraversare il regno a piedi. L’iconografia tradizionale ce lo tramanda già vecchio, povere vesti sulle spalle ormai curve, la sconosciuta fronte contro il sole che muore. Il giovane figlio, pochi passi più indietro, lo segue nel cammino. Del viandante sappiamo poco: lo sospettiamo vedovo; assumiamo che i suoi possedimenti, abbondanti o scarsi che fossero, se li fosse lasciati alle spalle, assieme alle natie coste dell’estremo oriente. Presa l’antica via che porta alle acque in cui il sole riposa, camminò per tutti gli anni che gli rimanevano, senza per questo raggiungerle. Alla sua morte, il figlio proseguì il viaggio per lui, portando con sé le ceneri paterne in un’urna di bronzo.

L’estensione del regno e l’abnegazione del suo popolo erano, in quel tempo, pari soltanto alla sua famosa prosperità. Dalla più remota antichità, ogni suddito sopra i quindici anni era – prima ancora che contadino, scriba, sacerdote – un fiero soldato del Re. Le antiche guerre erano state numerose, i bottini copiosi, la vittoria, costante. In seguito, per sette generazioni non si era udito il clamore della spada contro la spada, né dell’oscura campana che suona a peste o a carestia. La pace restava salda, la terra, verdeggiante. Né l’invasore osava violare il confine, oltre il quale l’attendeva il più vasto esercito sotto questo cielo.

I battenti del porto più occidentale della terra erano solidi, oscuri e finali; e dovettero passare innumerevoli inverni prima che un anziano viandante vi giungesse di fronte. Attraversata l’ultima porta dell’ultima città, l’uomo guadagnò l’ultima cattedrale prima del mare; lì depose tre urne di bronzo: le ceneri di suo padre, del padre di suo padre, e del padre del padre di suo padre, il quale era partito, un giorno, dalla punta più orientale del regno. Nei dipinti il viandante che giunge all’ovest non appare differente da quello – suo avo – che era partito dall’est: si tratta dello stesso viaggio, e quindi, del medesimo viaggiatore.

In quei giorni d’abbondanza viveva un grande profeta, le cui doti di preveggenza, fonte di consiglio prediletta dal monarca, erano note fin oltre i mari e i deserti.
Ebbene, egli fu colpito da una visione tanto dolorosa da renderlo, in un solo istante, infermo e cieco. Prima di spirare dolorosamente, pronunciò un’ultima profezia. Fu l’epitaffio di un’epoca.

Udite le tremende parole, il Re convocò d’urgenza i potenti del regno – ministri e sapienti, generali e sacerdoti, consiglieri e filosofi – nel futile e disperato tentativo di cambiare la sorte. In seguito a quel conclave, le teste sarebbero iniziate a cadere, ed il regno, a declinare.
Il profeta aveva annunciato che il regno sarebbe crollato per mano della pazzia. Ma che cos’era la pazzia? Come vincerla? Gli atti del gran convegno sono da lungo tempo perduti, o forse criptati in maniera tanto accurata che la chiave è ormai irrecuperabile. Ricordiamo la versione, grandemente banalizzata, che fu diffusa tra il volgo.

Il giudice sostenne che non c’era atto di pazzia che non portasse a trasgredire la legge con il furto, l’assassinio, il dolo, il tradimento, e così via; la cura era l’applicazione rigidissima del codice. Per il generale, la pazzia negli atti ingiustificati ed ingiustificabili; soldati che disertavano urlando, si denudavano in pieno giorno, si seviziavano da soli. Atti come questi, non sempre illegali, mettevano a repentaglio il controllo sul milite e sulla guerra; non nascevano dalla ragione né dalla ragione potevano essere sanati. Meglio allora il patibolo. Secondo il consigliere, una mente che mirasse ad un fine più grande del bene immediato e del senso comune poteva, talvolta, agire contro la legge e la logica apparente. Si rischiava dunque di confondere la pazzia con il segno del genio. Il sacerdote aggiunse che a volte il volgo scambiava per pazzia i segni della preveggenza e della santità; quanti profeti, nel corso dei millenni, erano stati ammazzati tra il pubblico ludibrio? Due medici non riuscirono a trovarsi d’accordo sull’ubicazione della pazzia: il cervello, oppure il cuore? Per il filosofo, la pazzia era stata distribuita ad ogni uomo, in porzioni non quantificabili né distillabili dagli altri umori che ne compongono l’essenza. A queste parole, tutti gli astanti gridarono all’oltraggio: se così stavano le cose, ogni uomo era un pazzo, e così anche il Re; c’era dunque da disperare nella salvezza del regno.

Il Re concluse che la pazzia era un’indefinibile chimera in cui lo sguardo di ciascuno riconosceva una bestia diversa. Abbracciando una definizione ed escludendo le altre, rischiava di perdere il regno. Meglio allora lasciare che ciascun suddito scandagliasse il prossimo alla ricerca dei segni della pazzia. Qualora li avesse trovati, per decreto, era da quel momento in avanti tenuto a denunciarlo all’autorità. Discusso il caso, se il giudice si fosse trovato d’accordo con l’accusa, si sarebbe proceduti al taglio della testa dell’imputato.

La legge, entrata in vigore seduta stante, portò nei tribunali un numero inusitato di accusati. La marea di presunti folli fu tale che la giustizia ne venne presto congestionata. Nella corruzione della capitale, lo scambio d’accuse di malattia mentale divenne strumentale, popolare, frequente e reciproco tra il nobile e l’avversario politico, tra l’amante e il rivale in amore, tra il pavido e lo sfidante a duello, tra il commerciante e il concorrente, tra il figlio ereditiere ed il vecchio padre, tra il locandiere e il pensionante insolvente, tra il caporale e la recluta, tra il questuante e il signore, tra il sacerdote e l’eretico. Ogni controversia si fece motivo d’accusa; i giudici, nella speranza di disincentivare la nuova usanza, e spesso, nel dubbio di assolvere un potenziale pazzo, mietevano teste. In quel periodo tre gilde crebbero di prestigio: quelle dei sacerdoti, dei boia, e dei necrofori regali. La morte divenne e rimase per sempre la prima e più remunerativa attività della capitale.

Avvistosi del disastro, il Re emise il suo ultimo decreto: avrebbe lasciato tutti poteri al reggente, meno quello di giudicare la sanità dei suoi sudditi. Se cittadini si erano mostrati cattivi accusatori e i magistrati pessimi giudici, occorreva abolire tanto i tribunali quanto le accuse. Solo il Re, da quel giorno, avrebbe diviso il sano dal folle. Quanto ai sudditi, dovevano considerarsi tutti colpevoli fino a prova contraria, e tenuti a recarsi personalmente a palazzo per sottoporsi al giudizio regale.

Prima che la notizia raggiungesse le più remote province del regno, alle porte della capitale erano stati impilati tanti teschi umani da elevarsi in mura, torri, piramidi. Nelle luci della sera, l’ombra degli edifici macabri si stendeva per miglia e miglia. Il Re aveva così iniziato il suo logorante officio. I sudditi venivano ammessi al suo cospetto uno per volta. Il sovrano poneva loro domande volte a indagare la logica, la cognizione di causa, la fedeltà alla corona. Durante i primi anni, impiegava diversi giorni per assodare la salute mentale di un singolo cittadino, o per condannarlo a morte. Ma nel corso delle stagioni, i tempi di giudizio si contrassero; venivano processati due, cinque, sette sudditi al giorno. E con l’avanzare degli anni, il sovrano si decise a continuare il lavoro anche durante la notte. Non si alzò mai più dal seggio del potere, dove consumava pasti frugali, sonni brevi e fustigati dall’incubo osceno del suo paese in fiamme. Vista la crescente economia delle sue domande, si disse che il Re aveva iniziato a tracciare i contorni dell’oscura chimera chiamata pazzia, e che poteva riconoscerla con sempre maggiore facilità. Si sostenne, nondimeno, che il monarca fosse affrettato dalla paura dell’incalcolabilità di due numeri: quello dei sudditi ancora da giudicare, e quello dei giorni che gli rimanevano da vivere.

Nel mentre, uomini e donne abbandonavano case e raccolti, reti e imbarcazioni; la polvere di gigantesche carovane si sollevava dai quattro angoli del regno, stringendosi verso il centro in una nuvola tale da oscurare l’orizzonte. Molti partivano sapendo che non avrebbero vissuto abbastanza per vedere le candide mura della capitale. Ciò non aveva nessuna importanza: sarebbero stati i loro figli a giungere al cospetto del Re e a farsi assolvere per loro.

Il sovrano aveva intanto ridotto i tempi di un processo ad un singolo istante. Ora non rivolgeva più alcuna domanda all’imputato: si limitava a guardarlo fissamente negli occhi. Poi, con un cenno della testa, gli indicava la direzione da seguire. Due porte stavano alle spalle del trono: quella di destra portava all’uscita dal palazzo, quella di sinistra, direttamente al patibolo. Secondo alcuni, il monarca aveva acquisito l’abilità di riconoscere i segni della pazzia nella profondità dello sguardo. Ma altrettanti sostennero che il suo giudizio era ormai del tutto casuale. Fu il disgusto per l’umanità, che in tanta parte sfilava ai suoi piedi, oppure il disprezzo per se stesso, incapace di riconoscere la mela marcia da quella sana, a gettare il Re in quel muto e sistematico delirio che gli permetteva di disporre della testa di un uomo con un singolo gesto del capo.
Il Re invecchiò e morì senza eredi, il suo volere continuò ad essere eseguito. Il popolo seguitò ad abbandonare campagne e città e ad affluire alla capitale.

Frattanto i figli di chi era stato assolto raggiungevano l’età per essere a loro volta giudicati, ed attendevano il loro turno per comparire all’ombra del trono. In quel tempo il teschio del Re fu incoronato ed appeso sopra il seggio con una corda d’oro. La sua oscillazione a destra o a sinistra, mossa dal capriccio del vento, determinava la condanna o la salvezza per l’imputato.
Dopo il teschio venne la moneta, dopo l’effige, il geroglifico. Mentre si dimenticava l’uso della scrittura, marchingegni sempre più sofisticati vennero a sostituire la mannaia nel taglio della testa. Ingegneri idrici studiarono nuovi sistemi di tubature per convogliare il sangue dei condannati dal palazzo alle porte della città. Nuovi dei furono inventati, le liturgie religiose si fecero più oscure, il titolo di necroforo, privilegio ereditario. La vita umana si svalutò fino a risultare inferiore a quella di un cane rognoso, e la perversione delle lotte di potere per il ruolo di reggente superarono ogni depravazione a memoria d’uomo.

Il tempo fece polvere del cranio regale, ed il reggente fece allora forgiare una moneta d’oro. Al recto i lineamenti dell’ultimo Re, al verso, quelli della Morte. Gli imputati continuarono ad essere convocati uno ad uno presso la sala del trono, dove un sacerdote, chino ai piedi del seggio vuoto, li giudicava col lancio della moneta. Ma l’usura delle generazioni appianò le due facce della moneta; il volto del sovrano e quelli della mietitrice sfumarono l’uno nell’altro, e quando infine divennero indistinguibili, ci si risolse a forgiare una nuova moneta. Per allora l’effige regale era stata dimenticata; per evitare il sacrilegio di falsificarla, la si sostituì con un monogramma. Quand’anche il monogramma fu consumato dall’uso, i segreti della scrittura erano ormai stati lungamente obliati dal nostro popolo. Nuovi simboli occulti fanno da allora le veci del Re, simboli che nessuno può decifrare, salvo il suo fautore.

Oggi la capitale è un informe groviglio di macerie: i suoi palazzi sono rovine, le sue strade, fogne a cielo aperto in cui lo sterco ed il sangue si mescolano indifferentemente. La superstizione spinge ancora le guardie a trasportare le teste dei condannati fuori dalle mura in rovina, e ad impilarle frettolosamente sui cumuli millenari. Ma i corpi decapitati vengono gettati al popolo, che se li litiga violentemente per divorarli. Questi miserabili, divorati dalla fame e dalle pestilenze, attendono il momento del loro giudizio in disperate ed incessanti orge di storpi. Richiamati dalle guardie, si trascinano attraverso le vie, che sono strade e fogne e lazzaretto, come cani con una gamba sola. Qualora vengano assolti dal giudizio della moneta, perdono la possibilità di essere processati di nuovo; molti scelgono allora il suicidio.

Non è possibile lasciare la città. Oltre le mura, per infinite miglia, la terra è morta, abbandonata e riarsa. Il cielo è divenuto oscuro, tanto che il punto in cui il sole sorge e quello in cui tramonta non sono che indistinti ed ipotetici rossori oltre nuvole che hanno dimenticato altro colore che quello del lutto. Selve nerissime divorano le antiche piantagioni, i fiumi straripano in paludi mefitiche, la gramigna, dove ancora cresce, scalza le pietre dalle strade deserte. Delle città non restano che pochi cumuli di sassi anneriti dalla fiamma, covi di lupi tanto famelici quanto deperiti per l’assenza di prede. I barbari hanno smesso da tempo di saccheggiare le terre oltre il confine, perché non c’è più nulla di cui fare incetta. Zolle di terra gelida e nera e senza frutto si stendono a perdita d’occhio, tempestate di teschi o di pietre taglienti. Benché i cancelli del regno siano stati scalzati e le torri di guardia rase al suolo, nessuno osa più varcare i confini. Se un viandante osasse addentrarsi nel regno, se anche non morisse per fame o per sete, lo ucciderebbe il silenzio.

Presto anche gli ultimi abitanti della capitale saranno giudicati e giustiziati. Si smetterà, allora, perfino l’uso di seppellire le teste in fosse comuni, perché non si conteranno più abbastanza braccia nemmeno per questo. Infine, un reggente ancora in fasce ed un vecchio sacerdote rimarranno gli unici esseri viventi. Il sacerdote tirerà la moneta per il bambino e per sé, ma a quel punto, che il giudizio sia di grazia o di condanna, non farà alcuna differenza. Anch’essi sono destinati a morire, e con la loro scomparsa, il regno sarà finalmente mondato dalla pazzia.