Belial coltiva, tra gli altri, il vizio della scrittura. Ha scritto i romanzi Saxophone Street Blues (2008, Las Vegas) e Making Movies (2009, Las Vegas).

sabato 18 aprile 2009

Racconti Macabri: Abissi

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I.

Lasciati alle spalle la porta occidentale della città santa di Q’zar. Cammina per tre giorni e tre notti verso il tramonto: troverai il silenzioso deserto, il lungo crepaccio, e infine, la misteriosa morte. Quanto alla leggenda, l’avrai già trovata tra le mura di Q’zar.

La leggenda è estremamente chiara nel riferire fatti che nessuno potrà mai confermare. Parla di un crepaccio che divide le sabbie e di cui non si scorge la fine; di un guardiano immortale e spietato; di un abisso in cui si precipita per sempre.

Cammina lungo l’orlo del crepaccio: in principio è poco più che una linea nera che vomita formiche rosse; ma dopo alcuni giorni di viaggio, lo vedrai crescere in larghezza e profondità, fino a diventare un burrone del quale non potrai scorgere il bordo opposto, né immaginare la profondità. Incontrerai, allora, il guardiano.

Vedere questo jinn è impossibile, udirne la voce, inevitabile. Con parole suadenti o minacciose, sarai costretto o persuaso a muovere due passi verso l’abisso. I tuoi occhi conosceranno la voragine. Il tuo panico supererà ogni vertigine; sarà la più pura sensazione della morte, in cui la repulsione si mescola a un’invincibile attrazione. Nessuno, giunto a quel punto, resiste oltre. E anche tu muoverai il terzo passo, quello finale. Il tuo corpo non smetterà mai di cadere nel vuoto, e anche dopo che sarai morto, le tue ossa continueranno a precipitare in eterno.

Nel tempo la leggenda ha spinto occultisti, santi, eccentrici, diesperati, aspiranti suicidi, appestati, e semplici creduloni, a lasciare Q’zar per guadagnare il crepaccio. L’immortalità, il potere, il paradiso: alcuni vaneggiano di questi e altri premi per chi riuscirà a vincere la tentazione del jinn. Ma nessuno fa mai ritorno dalla voragine, nessuno conosce la fine dell’abisso né l’origine della leggenda.

II.

Broadway. Una finestra al cinquantacinquesimo piano del Woolworth Building. Cornici: quella in acciaio della finestra, quella in alluminio di un computer portatile, quella in mogano di una fotografia in bianco e nero. Una scrivania di betulla.
Jessie Metz stringe la mano al cliente; gli fa dare uno sguardo dalla finestra, vista spettacolare quanto pericolosa, commenta. Come sempre. Il cliente combatte per un attimo contro il suo stesso sguardo: cedere alla tentazione di guardare di sotto, le linee rette del grattacielo, il loro sconvolgente restringimento verso il basso, la convergenza verso un punto di fuga negato, annullato dall’impatto con l’asfalto, e poi puntini gialli e grigi, automobili e persone come microbi nell’infezione fulminante della vertigine – oppure – oppure non abbassare gli occhi, fingersi dèi, restringere il campo visivo all’azzurrità del cielo, al delirio d’onnipotenza dello skyline newyorkese, scintillante, come se non portasse i segni di una mutilazione orrenda…

Metz gli offrirà da bere, se vuole, poi lo farà accomodare. Non parleranno subito di soldi, naturalmente. Metz gli racconterà una storia logora e confortevole come una vecchia giacca di panno. Parlerà prima della finestra, poi delle azioni, e infine della fotografia.

Tacerà il prezzo della sua vista su Manhattan, ma lascerà intendere che l’acquisto di quell’ufficio è il lavoro di una vita che non è iniziata nella bambagia. Non si dilungherà sui buchi sotto le scarpe da ginnastica dell’infanzia, ma enumererà i suoi pacchetti azionari più forti: Google, Apple, Samsung – su quelli in perdita potrà sorvolare agevolmente, grazie all’aggiornamento in tempo reale delle quotazioni. Poi lancerà un’occhiata all’uomo nella cornice di mogano; nella fotografia in bianco e nero è seduto ad una scrivania pesante, ingombrata da una ponderosa macchina da scrivere. Alle sue spalle, una finestra ben riconoscibile. Metz indicherà l’uomo come suo nonno e l’ufficio come il suo. Parlerà della sua rapida fortuna e immediata rovina nel 1929. Aveva perso tutto, incluso il prestigioso ufficio in quello che era all’epoca il più alto grattacielo del mondo, e che ora il nipote ha riconquistato.

Il cliente non ha nome né volto. Non è nemmeno un uomo, ma una serie discreta di cifre, dollari e appuntamenti, una statistica che Metz ha raffinato per anni. Nove volte su dieci, dopo aver sentito la storia di Metz e di suo nonno, il cliente lascia l’ufficio con una sorta di sollievo, una ritrovata fiducia in qualcosa che pensava perduto e che invece Metz incarna alla perfezione. Nove volte su dieci, il cliente firma il contratto. Poi, un’ultima occhiata a quella finestra aperta su tutta l’America, una stretta di mano, e la porta che si chiude alle sue spalle.

Solo un cliente su venti, forse trenta, non firma perché crede che la storia di Metz sia inventata. Potrebbe benissimo esserlo. L’ufficio potrebbe essere in affitto, la foto, acquistata per un pugno di cent al mercato delle pulci. Non è così.

L’importante, in fondo, non è che il cliente creda o meno alla storia. Ma che non venga mai a conoscenza di tre fatti: che i vetri della finestra “spettacolare quanto pericolosa” furono infranti il 28 ottobre 1929; che attraverso quei vetri il nonno di Metz si tolse la vita in un lunedì nero; e che, con tutta probabilità, lo stesso farà il nipote, dopo che avrà perso tutto.

III.

Vedo che lei vorrebbe domandarmi di mio marito. Esita, però. Sa che Franz è un uomo famoso; immagina che mi vengano più spesso rivolte domande su di lui che su me stessa. Come se fossi condannata a sparire nel cono d’ombra della sua celebrità, non essere più considerata una donna, ma solo la moglie di.

Sì, a volte è esattamente così. Ma non si preoccupi. Non mi dà alcun peso parlare di Franz. Forse perché siamo così diversi, o lui, per me, rimane lo stesso ragazzo che ho sempre conosciuto. Non era certo famoso, all’epoca. Tutto il contrario.

Comunque, devo dirle che io non ho mai amato la montagna; la sorprenderà, questo non ha influito sul nostro matrimonio. Del resto saprà che Franz scala esclusivamente in solitaria. Né l’ho mai trattenuto dal partire per le sue imprese, fossero le Alpi o le Ande o il K2… lui ha i suoi spazi, io i miei, lei mi capisce.

Il fatto è che la montagna… l’umidità della foresta, poi la vegetazione che si dirada… diventa quasi meschina, poi scompare quasi del tutto… e infine l’aria sempre più rarefatta, l’acqua che diventa ghiaccio, il freddo pungente, il sole accecante… ecco, per alcuni è una specie di cammino verso la purezza, verso Dio, non è così? Per Franz certamente è così, anche se non lo definirei certo un religioso. Ma per me, oh no. A me sembra un cammino verso la morte. Ci pensi: ogni passo lungo la salita è un progressivo allontanamento dalle città, gli uomini, gli animali, gli alberi… la vita!

E io invece voglio vivere. Io amo vivere.

In un uomo apprezzo la profondità dello sguardo, la reticenza… e – lo ammetto – la forza fisica. In Franz queste caratteristiche sono portate all’esasperazione. Tante volte ho provato a chiedergli il motivo di tutti i suoi sforzi. L’allenamento sfibrante, i numerosi rischi, la sete di conquistare vette sempre più alte, imprese sempre più estreme… inoltre, lo sa, non è più un ragazzino… e tutto questo per arrivare sulla cima di una montagna! Lei non può immaginare quante volte gli ho domandato perché. E lo sa cosa mi ha risposto? Cosa mi ha risposto ogni singola volta? «Per guardare di sotto.»

Per guardare di sotto! Si figuri. Beh, qualunque cosa veda da lassù, di certo non lo saprebbe raccontare a parole. E del resto, riuscirei mai capirlo? Quello che so è che quando mi affaccio nei suoi occhi – ed è una vista insostenibile, a volte – veramente mi sembra di sporgermi in un abisso. Insondabile.
Ecco, mi dico allora. Ecco un uomo che non morirà tranquillamente nel suo letto.

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