Belial coltiva, tra gli altri, il vizio della scrittura. Ha scritto i romanzi Saxophone Street Blues (2008, Las Vegas) e Making Movies (2009, Las Vegas).

mercoledì 1 aprile 2009

Racconti Macabri: la Moneta, la Chimera, la Morte

Non è un pesce d'aprile ma un nuovo trionfo della morte, per tutti gli amanti del genere... [Pdf]


Questa terra desolata fu, un tempo, il regno più esteso della terra. Aveva inizio dal più estremo lembo di terra orientale, e terminava, assieme al mondo, sulle sponde dell’oscuro oceano dell’ovest. L’incandescente occhio del cielo impiegava un dì ad abbracciarlo nella sua interezza; ad un occhio umano, un’intera vita non sarebbe stata sufficiente.

Abbiamo dimenticato il nome, ma non l’impresa, dell’uomo che volle attraversare il regno a piedi. L’iconografia tradizionale ce lo tramanda già vecchio, povere vesti sulle spalle ormai curve, la sconosciuta fronte contro il sole che muore. Il giovane figlio, pochi passi più indietro, lo segue nel cammino. Del viandante sappiamo poco: lo sospettiamo vedovo; assumiamo che i suoi possedimenti, abbondanti o scarsi che fossero, se li fosse lasciati alle spalle, assieme alle natie coste dell’estremo oriente. Presa l’antica via che porta alle acque in cui il sole riposa, camminò per tutti gli anni che gli rimanevano, senza per questo raggiungerle. Alla sua morte, il figlio proseguì il viaggio per lui, portando con sé le ceneri paterne in un’urna di bronzo.

L’estensione del regno e l’abnegazione del suo popolo erano, in quel tempo, pari soltanto alla sua famosa prosperità. Dalla più remota antichità, ogni suddito sopra i quindici anni era – prima ancora che contadino, scriba, sacerdote – un fiero soldato del Re. Le antiche guerre erano state numerose, i bottini copiosi, la vittoria, costante. In seguito, per sette generazioni non si era udito il clamore della spada contro la spada, né dell’oscura campana che suona a peste o a carestia. La pace restava salda, la terra, verdeggiante. Né l’invasore osava violare il confine, oltre il quale l’attendeva il più vasto esercito sotto questo cielo.

I battenti del porto più occidentale della terra erano solidi, oscuri e finali; e dovettero passare innumerevoli inverni prima che un anziano viandante vi giungesse di fronte. Attraversata l’ultima porta dell’ultima città, l’uomo guadagnò l’ultima cattedrale prima del mare; lì depose tre urne di bronzo: le ceneri di suo padre, del padre di suo padre, e del padre del padre di suo padre, il quale era partito, un giorno, dalla punta più orientale del regno. Nei dipinti il viandante che giunge all’ovest non appare differente da quello – suo avo – che era partito dall’est: si tratta dello stesso viaggio, e quindi, del medesimo viaggiatore.

In quei giorni d’abbondanza viveva un grande profeta, le cui doti di preveggenza, fonte di consiglio prediletta dal monarca, erano note fin oltre i mari e i deserti.
Ebbene, egli fu colpito da una visione tanto dolorosa da renderlo, in un solo istante, infermo e cieco. Prima di spirare dolorosamente, pronunciò un’ultima profezia. Fu l’epitaffio di un’epoca.

Udite le tremende parole, il Re convocò d’urgenza i potenti del regno – ministri e sapienti, generali e sacerdoti, consiglieri e filosofi – nel futile e disperato tentativo di cambiare la sorte. In seguito a quel conclave, le teste sarebbero iniziate a cadere, ed il regno, a declinare.
Il profeta aveva annunciato che il regno sarebbe crollato per mano della pazzia. Ma che cos’era la pazzia? Come vincerla? Gli atti del gran convegno sono da lungo tempo perduti, o forse criptati in maniera tanto accurata che la chiave è ormai irrecuperabile. Ricordiamo la versione, grandemente banalizzata, che fu diffusa tra il volgo.

Il giudice sostenne che non c’era atto di pazzia che non portasse a trasgredire la legge con il furto, l’assassinio, il dolo, il tradimento, e così via; la cura era l’applicazione rigidissima del codice. Per il generale, la pazzia negli atti ingiustificati ed ingiustificabili; soldati che disertavano urlando, si denudavano in pieno giorno, si seviziavano da soli. Atti come questi, non sempre illegali, mettevano a repentaglio il controllo sul milite e sulla guerra; non nascevano dalla ragione né dalla ragione potevano essere sanati. Meglio allora il patibolo. Secondo il consigliere, una mente che mirasse ad un fine più grande del bene immediato e del senso comune poteva, talvolta, agire contro la legge e la logica apparente. Si rischiava dunque di confondere la pazzia con il segno del genio. Il sacerdote aggiunse che a volte il volgo scambiava per pazzia i segni della preveggenza e della santità; quanti profeti, nel corso dei millenni, erano stati ammazzati tra il pubblico ludibrio? Due medici non riuscirono a trovarsi d’accordo sull’ubicazione della pazzia: il cervello, oppure il cuore? Per il filosofo, la pazzia era stata distribuita ad ogni uomo, in porzioni non quantificabili né distillabili dagli altri umori che ne compongono l’essenza. A queste parole, tutti gli astanti gridarono all’oltraggio: se così stavano le cose, ogni uomo era un pazzo, e così anche il Re; c’era dunque da disperare nella salvezza del regno.

Il Re concluse che la pazzia era un’indefinibile chimera in cui lo sguardo di ciascuno riconosceva una bestia diversa. Abbracciando una definizione ed escludendo le altre, rischiava di perdere il regno. Meglio allora lasciare che ciascun suddito scandagliasse il prossimo alla ricerca dei segni della pazzia. Qualora li avesse trovati, per decreto, era da quel momento in avanti tenuto a denunciarlo all’autorità. Discusso il caso, se il giudice si fosse trovato d’accordo con l’accusa, si sarebbe proceduti al taglio della testa dell’imputato.

La legge, entrata in vigore seduta stante, portò nei tribunali un numero inusitato di accusati. La marea di presunti folli fu tale che la giustizia ne venne presto congestionata. Nella corruzione della capitale, lo scambio d’accuse di malattia mentale divenne strumentale, popolare, frequente e reciproco tra il nobile e l’avversario politico, tra l’amante e il rivale in amore, tra il pavido e lo sfidante a duello, tra il commerciante e il concorrente, tra il figlio ereditiere ed il vecchio padre, tra il locandiere e il pensionante insolvente, tra il caporale e la recluta, tra il questuante e il signore, tra il sacerdote e l’eretico. Ogni controversia si fece motivo d’accusa; i giudici, nella speranza di disincentivare la nuova usanza, e spesso, nel dubbio di assolvere un potenziale pazzo, mietevano teste. In quel periodo tre gilde crebbero di prestigio: quelle dei sacerdoti, dei boia, e dei necrofori regali. La morte divenne e rimase per sempre la prima e più remunerativa attività della capitale.

Avvistosi del disastro, il Re emise il suo ultimo decreto: avrebbe lasciato tutti poteri al reggente, meno quello di giudicare la sanità dei suoi sudditi. Se cittadini si erano mostrati cattivi accusatori e i magistrati pessimi giudici, occorreva abolire tanto i tribunali quanto le accuse. Solo il Re, da quel giorno, avrebbe diviso il sano dal folle. Quanto ai sudditi, dovevano considerarsi tutti colpevoli fino a prova contraria, e tenuti a recarsi personalmente a palazzo per sottoporsi al giudizio regale.

Prima che la notizia raggiungesse le più remote province del regno, alle porte della capitale erano stati impilati tanti teschi umani da elevarsi in mura, torri, piramidi. Nelle luci della sera, l’ombra degli edifici macabri si stendeva per miglia e miglia. Il Re aveva così iniziato il suo logorante officio. I sudditi venivano ammessi al suo cospetto uno per volta. Il sovrano poneva loro domande volte a indagare la logica, la cognizione di causa, la fedeltà alla corona. Durante i primi anni, impiegava diversi giorni per assodare la salute mentale di un singolo cittadino, o per condannarlo a morte. Ma nel corso delle stagioni, i tempi di giudizio si contrassero; venivano processati due, cinque, sette sudditi al giorno. E con l’avanzare degli anni, il sovrano si decise a continuare il lavoro anche durante la notte. Non si alzò mai più dal seggio del potere, dove consumava pasti frugali, sonni brevi e fustigati dall’incubo osceno del suo paese in fiamme. Vista la crescente economia delle sue domande, si disse che il Re aveva iniziato a tracciare i contorni dell’oscura chimera chiamata pazzia, e che poteva riconoscerla con sempre maggiore facilità. Si sostenne, nondimeno, che il monarca fosse affrettato dalla paura dell’incalcolabilità di due numeri: quello dei sudditi ancora da giudicare, e quello dei giorni che gli rimanevano da vivere.

Nel mentre, uomini e donne abbandonavano case e raccolti, reti e imbarcazioni; la polvere di gigantesche carovane si sollevava dai quattro angoli del regno, stringendosi verso il centro in una nuvola tale da oscurare l’orizzonte. Molti partivano sapendo che non avrebbero vissuto abbastanza per vedere le candide mura della capitale. Ciò non aveva nessuna importanza: sarebbero stati i loro figli a giungere al cospetto del Re e a farsi assolvere per loro.

Il sovrano aveva intanto ridotto i tempi di un processo ad un singolo istante. Ora non rivolgeva più alcuna domanda all’imputato: si limitava a guardarlo fissamente negli occhi. Poi, con un cenno della testa, gli indicava la direzione da seguire. Due porte stavano alle spalle del trono: quella di destra portava all’uscita dal palazzo, quella di sinistra, direttamente al patibolo. Secondo alcuni, il monarca aveva acquisito l’abilità di riconoscere i segni della pazzia nella profondità dello sguardo. Ma altrettanti sostennero che il suo giudizio era ormai del tutto casuale. Fu il disgusto per l’umanità, che in tanta parte sfilava ai suoi piedi, oppure il disprezzo per se stesso, incapace di riconoscere la mela marcia da quella sana, a gettare il Re in quel muto e sistematico delirio che gli permetteva di disporre della testa di un uomo con un singolo gesto del capo.
Il Re invecchiò e morì senza eredi, il suo volere continuò ad essere eseguito. Il popolo seguitò ad abbandonare campagne e città e ad affluire alla capitale.

Frattanto i figli di chi era stato assolto raggiungevano l’età per essere a loro volta giudicati, ed attendevano il loro turno per comparire all’ombra del trono. In quel tempo il teschio del Re fu incoronato ed appeso sopra il seggio con una corda d’oro. La sua oscillazione a destra o a sinistra, mossa dal capriccio del vento, determinava la condanna o la salvezza per l’imputato.
Dopo il teschio venne la moneta, dopo l’effige, il geroglifico. Mentre si dimenticava l’uso della scrittura, marchingegni sempre più sofisticati vennero a sostituire la mannaia nel taglio della testa. Ingegneri idrici studiarono nuovi sistemi di tubature per convogliare il sangue dei condannati dal palazzo alle porte della città. Nuovi dei furono inventati, le liturgie religiose si fecero più oscure, il titolo di necroforo, privilegio ereditario. La vita umana si svalutò fino a risultare inferiore a quella di un cane rognoso, e la perversione delle lotte di potere per il ruolo di reggente superarono ogni depravazione a memoria d’uomo.

Il tempo fece polvere del cranio regale, ed il reggente fece allora forgiare una moneta d’oro. Al recto i lineamenti dell’ultimo Re, al verso, quelli della Morte. Gli imputati continuarono ad essere convocati uno ad uno presso la sala del trono, dove un sacerdote, chino ai piedi del seggio vuoto, li giudicava col lancio della moneta. Ma l’usura delle generazioni appianò le due facce della moneta; il volto del sovrano e quelli della mietitrice sfumarono l’uno nell’altro, e quando infine divennero indistinguibili, ci si risolse a forgiare una nuova moneta. Per allora l’effige regale era stata dimenticata; per evitare il sacrilegio di falsificarla, la si sostituì con un monogramma. Quand’anche il monogramma fu consumato dall’uso, i segreti della scrittura erano ormai stati lungamente obliati dal nostro popolo. Nuovi simboli occulti fanno da allora le veci del Re, simboli che nessuno può decifrare, salvo il suo fautore.

Oggi la capitale è un informe groviglio di macerie: i suoi palazzi sono rovine, le sue strade, fogne a cielo aperto in cui lo sterco ed il sangue si mescolano indifferentemente. La superstizione spinge ancora le guardie a trasportare le teste dei condannati fuori dalle mura in rovina, e ad impilarle frettolosamente sui cumuli millenari. Ma i corpi decapitati vengono gettati al popolo, che se li litiga violentemente per divorarli. Questi miserabili, divorati dalla fame e dalle pestilenze, attendono il momento del loro giudizio in disperate ed incessanti orge di storpi. Richiamati dalle guardie, si trascinano attraverso le vie, che sono strade e fogne e lazzaretto, come cani con una gamba sola. Qualora vengano assolti dal giudizio della moneta, perdono la possibilità di essere processati di nuovo; molti scelgono allora il suicidio.

Non è possibile lasciare la città. Oltre le mura, per infinite miglia, la terra è morta, abbandonata e riarsa. Il cielo è divenuto oscuro, tanto che il punto in cui il sole sorge e quello in cui tramonta non sono che indistinti ed ipotetici rossori oltre nuvole che hanno dimenticato altro colore che quello del lutto. Selve nerissime divorano le antiche piantagioni, i fiumi straripano in paludi mefitiche, la gramigna, dove ancora cresce, scalza le pietre dalle strade deserte. Delle città non restano che pochi cumuli di sassi anneriti dalla fiamma, covi di lupi tanto famelici quanto deperiti per l’assenza di prede. I barbari hanno smesso da tempo di saccheggiare le terre oltre il confine, perché non c’è più nulla di cui fare incetta. Zolle di terra gelida e nera e senza frutto si stendono a perdita d’occhio, tempestate di teschi o di pietre taglienti. Benché i cancelli del regno siano stati scalzati e le torri di guardia rase al suolo, nessuno osa più varcare i confini. Se un viandante osasse addentrarsi nel regno, se anche non morisse per fame o per sete, lo ucciderebbe il silenzio.

Presto anche gli ultimi abitanti della capitale saranno giudicati e giustiziati. Si smetterà, allora, perfino l’uso di seppellire le teste in fosse comuni, perché non si conteranno più abbastanza braccia nemmeno per questo. Infine, un reggente ancora in fasce ed un vecchio sacerdote rimarranno gli unici esseri viventi. Il sacerdote tirerà la moneta per il bambino e per sé, ma a quel punto, che il giudizio sia di grazia o di condanna, non farà alcuna differenza. Anch’essi sono destinati a morire, e con la loro scomparsa, il regno sarà finalmente mondato dalla pazzia.

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