Belial coltiva, tra gli altri, il vizio della scrittura. Ha scritto i romanzi Saxophone Street Blues (2008, Las Vegas) e Making Movies (2009, Las Vegas).

martedì 11 agosto 2009

Cinéma Belial: Man on Wire (Marsh 2008)

Man on Wire (UK 2008) di James Marsh, con Philippe Petit.


Man on Wire è il documentario più premiato e meglio recensito dello scorso anno. È stato proiettato allo scorso Festival di Roma, ma non ha ancora ricevuto una distribuzione regolare in Italia.

È ormai ridondante lodare la qualità della realizzazione. James Marsh ha scelto un tipo di narrazione che ricorda i classici film caper, inserendo perfino qualche tocco espressionistico. Le “ricostruzioni drammatiche” sono talmente curate da affiancare le immagini di repertorio con una totale naturalezza. Il montaggio è incalzante, le musiche di Nyman (molte riprese dai film di Greenaway) azzeccate. Ma naturalmente, tutto questo passerebbe in secondo piano se non fosse per il fascino del soggetto.

Il mattino del sette agosto 1974, dopo anni di preparativi, il funambolo francese Philippe Petit portava a compimento la sua impresa più estrema: si esibiva a 417 metri dal suolo, sopra un cavo d’acciaio teso tra le due torri gemelli del World Trade Center di New York. Senza cavi di sicurezza, senza protezioni, e naturalmente, senza alcuna autorizzazione.

La performance di Petit è considerata da alcuni come una provocazione al simbolo del capitalismo; interpretazione riduttiva. La provocazione di Petit ha uno spettro molto più ampio: rovescia le paure ataviche dell’uomo, e sfida le leggi della fisica molto prima di irridere i poliziotti che vengono ad arrestarlo sul tetto del WTC. Anche le convenzioni dello spettacolo risultano sovvertite: certo, l’impresa regalerà a Petit una grande fama. Ma in un’epoca in cui il quarto d’ora di successo è garantito a chiunque, un uomo non ha bisogno di rischiare la vita in maniera così deliberatamente elaborata per ottenere il suo momento di gloria. È evidente che Petit è mosso da uno spirito più selvaggio, determinato, e fondamentalmente irrazionale, mentre si lancia verso la sua herzogiana “conquista dell’inutile”.

Per le riprese di Fitzcarraldo, Herzog volle portare una vera nave su una montagna nel bel mezzo della giungla, rifiutando i trucchi cinematografici che gli avrebbero di gran lunga semplificato il compito, a costo della personale bancarotta. La performance di Petit è di natura simile: titanica, spettacolare, splendidamente inutile ed in qualche modo commovente. L’impresa di Petit sempre però in qualche modo più perfetta, forse perché sembra coinvolgere più direttamente un singolo individuo e richiedere mezzi più esigui. In realtà Petit non avrebbe potuto realizzare la performance senza l’aiuto di un’equipe e di due tonnellate di attrezzature; tuttavia, una volta fissati i cavi, il funambolo è solo sopra il baratro, solo davanti alla morte.



«If i die… what a beautiful death, to die in the middle of this exercise!»

In Petit, dunque, il desiderio di autodistruzione è tanto forte quanto quello di auto perfezionamento. Si tratta, necessariamente, di spinte che riescono a bilanciarsi perfettamente, ma che nondimeno tradiscono la profonda irrazionalità del gesto. Quel che commuove non è il tentativo di un uomo di superare i propri limiti, le proprie paure. Sì, l’esercizio richiede la perfezione tecnica, una preparazione fisica e psicologica estenuante. Eppure non siamo di fronte ad una prova agonistica sportiva, né ad un cammino di elevazione spirituale. Quando guardiamo Petit camminare sopra New York, stiamo assistendo ad un’opera d’arte perfetta, il frutto di una dedizione totale, estrema, parossistica.

Fino a un certo punto del film, Petit sembra l’incarnazione del trapezista kafkiano. In seguito, diventa semplicemente una star. Dopo essersi arreso alla polizia, il funambolo viene trascinato in un istituto psichiatrico. E forse sarebbe questo l’epilogo più calzante alla sua storia: la bellezza del suo gesto incompresa, condannata, in una caduta più profonda della morte. Ma naturalmente Petit viene liberato, applaudito dalla folla, scagionato da tutte le accuse, perfino premiato con un ingresso libero a vita per l’osservatorio del WTC. E, come sappiamo, gireranno un film su di lui, un film molto bello, fra l’altro. Mi chiedo fino a che punto questo lieto fine sia tollerabile.