Belial coltiva, tra gli altri, il vizio della scrittura. Ha scritto i romanzi Saxophone Street Blues (2008, Las Vegas) e Making Movies (2009, Las Vegas).

martedì 2 giugno 2009

Cinéma Belial: Youth Without Youth (Un'altra giovinezza, Coppola 2007)

Nasce la rubrica Cinéma Belial: opinioni non richieste su film non troppo visti. In questo numero: il curioso caso di Francis Coppola, le regole della casa del sanscrito, e tutto il fascino dell’India in biplano…


Fulmini. Persone colpite da fulmini. Prima un uomo, poi una donna. Un vecchio linguista e una giovane proto-hippie, per la precisione. Nessuno dei due muore. Il primo ringiovanisce, diventa intelligentissimo e ricercato dalle SS. La seconda si mette a parlare in sancrito, in egiziano antico, in babilonese… Ah, oltre a ringiovanire, il linguista si sdoppia; ha un doppelgänger cattivo che gli parla dagli specchi.

Il soggetto di Youth Without Youth (Un’altra giovinezza, 2007), è ridicolo, e allo stesso tempo affascinante. Portare sullo schermo una storia del genere dà luogo ad almeno due certezze: il fallimento al botteghino ed il biasimo di una parte della critica, nella fattispecie quella americana. Ma c’è chi se lo può permettere: Francis Ford Coppola, che ha scelto di tornare alla regia dopo dieci anni con un film estremamente europeo, piuttosto classico, ed altrettanto anomalo. A noi è piaciuto.



Girato in digitale in un'ottantina di giorni, con Tim Roth come unica star, Youth Without Youth deve buona parte del suo interesse e la quasi totalità dei suoi difetti alla sceneggiatura. L’ha firmata lo stesso Coppola, ed è un adattamento dell’omonimo romanzo (ristampato per l’occasione da Rizzoli) di Mircea Eliade, poliglotta e storico delle religioni rumeno. La trama presenta una sua precisa simmetria, ed un’originale mescolanza di fantastico borgesiano, fantascienza wellsiana, avventura stevensoniana, non senza tocchi di metafisica. Eliade si spinge anche a toccare tematiche non banali, come la seconda giovinezza e la glossolalia. Il tema del doppio, invece, appare un po’ banalizzato, forse addirittura superfluo nell’economia della storia.

Dominic Matei, un linguista e poliglotto romeno ultrasettantenne (Roth), disperato dall’incombenza della morte e dall’impossibilità di completare il lavoro della sua vita – un saggio sull’origine del linguaggio e della coscienza – si reca a Bucarest per suicidarsi. Ed è qui che viene colpito dal fulmine; la scena in cui Roth viene sollevato da terra, elettrizzato ed infine abbandonato sull’asfalto è peraltro la più inguardabile dell’intera pellicola, ed ha l’unica qualità di finire presto. L’idiosincrasia di Coppola per gli effetti speciali digitali è nota, ma non costituisce un alibi per una scena indegna di un horror di serie b degli anni ‘20. Tornando a Matei, immediatamente ricoverato in ospedale, durante la sua convalescenza non solo si riprende completamente, ma si ritrova più giovane di almeno vent’anni, nonché dotato di una memoria e di risorse mentali pressoché illimitate. Userà questi doni per continuare la sua opera, che tuttavia non potrà essere completa fino a che, molti anni dopo, in Svizzera, non incontrerà una ragazza (Lara) che, dopo lo shock per la caduta di un altro fulmine, parla esclusivamente in sanscrito…



Il tema del ringiovanimento rende inevitabile il confronto con The Curious Case of Benjamin Button (Il curioso caso di Benjamin Button, 2008). In entrambi i casi, l’inversione della naturale tendenza all’invecchiamento viene dispensata da un’entità superiore che rimane innominata. Nel film di Fincher possiamo supporre un benevolo disegno divino – le difficoltà dell’infanzia di Benjamin vengono compensate dalla ricchezza, dall’amore e dall’avventura; e non sottovalutiamo il fatto che questo vecchio raggrinzito, ringiovanendo, diventa Brad Pitt… Il film di Coppola è molto meno consolatorio. Certo, grazie alla sua straordinaria intelligenza, Dominic può vivere tranquillamente coi soldi sistematicamente al casinò; né gli è risparmiata la storia d’amore della sua vita e qualche scampagnata esotica (l’India, anche qui). Ma la sua “giovinezza senza giovinezza” è chiaramente di natura diabolica, faustiana. È vero, gli è stata concessa una seconda vita, ma solo affinché la sacrificasse per le sue ricerche; a quest’opera, che costituisce la sua speranza d’immortalità, dovrà immolare anche l’amata, consumata dall’attività mediatica.

A proposito di glossolalia (il fenomeno per cui il parlante giunge ad esprimersi in lingue inesistenti oppure a lui sconosciute), è probabile che Eliade abbia tratto ispirazione dal caso di Hélène Smith, ampiamente trattato dal linguista Roberto Giacomelli in un volumetto del 2006. La Smith, una giovane commessa nonché sensitiva legata all’ambiente della teosofia nella Ginevra di fine Ottocento, si esibiva infatti mentre, in stato di trance, si esprimeva in sanscrito, sostenendo essere la reincarnazione della principessa indiana del XV secolo Simandini. Lo studio di Giacomelli, naturalmente, sfata i risvolti esoterici della vicenda, ma la somiglianza con la storia di Eliade rimane evidente. È d’altronde probabile che Eliade fosse venuto a conoscenza del caso della Smith dagli studi di Flournoy e Saussure.

Purtroppo il film di Coppola fallisce nel mantenere intatta la sospensione dell’incredulità per le oltre due ore della sua durata. Paradossalmente, e nonostante una storia non meno improbabile, Benjamin Button regge molto meglio sotto quest’aspetto; sarà che l’aura da kolossal hollywoodiano predispone meglio lo spettatore all’improbabile e al meraviglioso. Resta il fatto che il Padrino è tornato, e con un film originale, per molti aspetti raffinato, non senza pecche e non per tutti i palati, ma in fondo è meglio così. Per chi, come noi, l’aveva perso, vale la pena di recuperarlo; aspettando Tetro

Bibliografia
Giacomelli, Roberto: “Lo strano caso della signora Hélène Smith”, Scheiwiller, Milano 2006.
Eliade, Mircea: “Un’altra giovinezza”, Rizzoli, Milano 2007.

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