Belial coltiva, tra gli altri, il vizio della scrittura. Ha scritto i romanzi Saxophone Street Blues (2008, Las Vegas) e Making Movies (2009, Las Vegas).

domenica 15 marzo 2009

Racconti Macabri: Simón del Desierto

Primo racconto di una serie a sfondo macabro. [Pdf]


Da quando la fama di Simón arrivò a spandersi, suo malgrado, ben oltre i confini del deserto, l’attività di stilita è passata, da inusuale stile di vita, a professione consolidata. Il vago sentiero attraverso le dune, dalle polveri raramente smosse da rade carovane, è oggi un’ampia via ben lastricata. Il viavai di mercanti e pellegrini è tale che il vento solleva cori di preghiera ed urla di banditori di bestiame, le mescola alla polvere di strada, e le trasporta attraverso il cielo per incalcolabili miglia.

Il viandante che si trovi a passare sotto quello stesso cielo, un tempo colorato di un azzurro vuoto, ed insostenibilmente tendente all’infinito, lo troverà oggi puntellato di colonne. Pilastri di pietra, di marmo, di mattoni cotti al sole; alcune colonne sfoggiano scanalature e capitelli corinzi, altre sono semplicemente imbiancate, molte rimangono orgogliosamente al grezzo. Le più alte svettano contro il sole per diversi cubiti, benché le più antiche non superino la statura di un uomo che di poche teste. Le colonne più fastose giungono come doni dai miracolati di famiglie abbienti, le più frugali consistono spesso d’un tronco spoglio, piantato nel terreno, con una minuscola pedana fissata alla sommità. Alcuni pellegrini giurano che almeno sette di queste colonne sono alberi maestri di antichi velieri; come, dal mare, siano giunte al cuore ardente del deserto, è solo uno dei misteri che fa la fortuna degli stiliti.

Sopra ogni colonna, naturalmente, vi è un uomo. Il mondo dello stilita è ridotto ad una pedana sollevata da terra, spazio vagamente sufficiente per il suo solo corpo, e che gli fa da letto, cesso e pulpito. Lo stilita non ha mai un tetto sopra la testa; il suo corpo è arso dal sole e schiaffeggiato dal vento; la sabbia gli si infila nelle pieghe delle pelle, tra i lunghi fili della barba mai rasa; è la rara pioggia, quando viene, a lavarlo. Al mattino cala il suo cesto fino a terra, con una lunga corda; vive della carità del pellegrino che lo riempie con un tozzo di pane ed una zucca d’acqua. Le carni ed il vino erano tradizionalmente rifiutati, ma col proliferare degli stiliti, si moltiplicano le usanze, e si inteneriscono le regole. Di giorno, lo stilita prega per la sua anima e per quella dei fedeli che si radunano ai suoi piedi; essi non sempre sono numerosi, e non sempre abitano i dintorni. Gli capita di fustigarsi o di imporsi penitenze dolorose, lo si vede restare in posizioni dalla scomodità impraticabile per ore, per giorni e notti, per settimane, ben al di là del limite di sopportazione conosciuto dagli uomini. Gli si attribuiscono, immancabilmente, eresie e miracoli, perché la gente è tradizionalmente disposta a credere, e tendenzialmente incline a dubitare. Ha i suoi tormenti, le sue visioni, e le sue crisi. A volte, dopo anni inflessibili di vita nel deserto, implora i passanti di alzargli una scala, piangendo e strappandosi i capelli. La gente allora si affolla ai suoi piedi, lo lascia scendere, lo lascia passare. Qualcuno gli strappa un lembo della veste, alcuni baciano i suoi piedi nudi, le piaghe sotto le ginocchia. Infine gli fanno largo, molti se ne vanno, alcuni rimangono a guardare i suoi passi malfermi, mentre scompare nel tramonto. Quale destino attenda l’eremita che lascia il suo posto, è un altro di quei misteri che alimentano la fede negli stiliti.

Lo stilita è raramente un santo, quasi mai un sacerdote, sempre più spesso un autentico peccatore. Non è infrequente, ormai, che sia un assassino o un ladro a prendere la via del deserto, e a ritirarsi sulla sommità di una colonna. Non tutti hanno accolto favorevolmente questa recente tendenza; tuttavia, il diritto di predicare non è mai stato precluso ad un peccatore. Quanto alla possibilità di essere ascoltato, si è trovato che gli stiliti dal passato torbido riscuotono la simpatia e la devozione di non pochi viandanti. Essi colorano il loro messaggio delle tinte della vita vissuta; a chi si ferma ad ascoltarli, più che ad una messa, pare a volte di assistere a una confessione. Fra loro, non è mistero, si contano anche dei cialtroni, banditi scampati alla forca grazie allo stratagemma della colonna; essi fingono il digiuno di giorno, ma non appena cala la notte, ecco arrivare le orde di sghignazzanti compagni di rapine. L’aria si riempie di echi di spari nell’aria e nitriti agonizzanti di cavalli spronati a sangue, che stramazzano ai piedi della colonna. Là i fuorilegge appiccano dei falò, estraggono chitarre e fiaschi di vino, cantano e s’ingozzano per tutta la notte. Il loro compagno, dall’alto della colonna, partecipa ai festeggiamenti come può: cala frettolosamente il cestello, che i compari non lesinano di caricare di carne di porco, e vino a volontà. Ma nonostante queste consolazioni, questi derelitti si stancano presto della vita d’eremitaggio. I finti stiliti, generalmente, non durano molto come predicatori, e a meno che non sorprendano, nei momenti di solitudine, almeno un briciolo di vocazione, e si danno ben presto alla macchia.

La gran crescita del numero di colonne ha portato, paradossalmente, alla formazione di confraternite di stiliti. Il sodalizio tra uomini che, per forza di cose, non solo non condividono lo stesso pane sotto i denti, ma nemmeno lo stesso suolo sotto i piedi, non può che avere una natura puramente spirituale, e risolversi in una condivisione di vedute e toni di predicazione. Questi ordini di uomini solitari contano sempre un numero esiguo d’iscritti; però si può immaginare che, un giorno, i maggiori tra essi diventeranno numerosi ed influenti, e conteranno colonne e proseliti nei deserti di tutto il mondo, rispettando rituali e tradizioni comuni. Per ora, è rimasto celebre il caso di quei tre stiliti i quali, dopo anni di vicinato nell’eremitaggio, si erano fatti costruire tre colonne identiche, vicine ed allineate tra loro. Essi erano noti semplicemente come “i tre”, e si narra delle loro predicazioni a più voci, non di rado spettacolari.

I tempi stanno rapidamente cambiando, e nemmeno il deserto rimane uguale a se stesso. Si aprono chioschi e si piantano tende. I mercanti sostano, a poche iarde dalle colonne, per far riposare uomini e bestie, ed è allora che notizie, persone e merci si mescolano tra loro e cambiano per sempre. Vi sono, ogni giorno che passa, più stiliti, più fedeli e più merci, in un circolo di interessi tanto vasto e variegato che ormai di rado viene definito vizioso. Cosa porterà il domani, non ci è dato vederlo. Avremo probabilmente stiliti di sesso femminile, occorrenza che non si è ancora registrata. Magari il numero di colonne crescerà al punto da ricoprire l’intero manto del deserto, ed il pellegrinaggio verso gli stiliti arriverà a coinvolgere l’intero popolo. Le terre desolate, allora, saranno largamente abitate, mentre le città, abbandonate, cadranno in rovina. Il nostro popolo smetterà di coltivare i campi e di costruire ferrovie, e le poche navi entreranno nei diroccati porti solo per far scendere i pellegrini giunti dall’altra parte del mare. La gente imparerà dai nomadi i costumi dell’apolide, e vagherà per le sabbie per molti secoli. Ad un uomo che si affaccia alla vita, non si porranno che due destini: la predicazione, o la diaspora. Per bocca dei suoi innumerevoli profeti, perfino Dio si farà molteplice e pellegrino, e la ricerca delle sue tracce, interminabile, coinvolgerà infine ogni nazione.
Per il momento, il nuovo corso dello stilitismo conta, naturalmente, innumerevoli detrattori. La chiesa romana, innanzitutto, non ha visto di buon occhio il proliferare di predicatori eterodossi. Tuttavia, finora, non è veramente riuscita ad arginare il fenomeno. Alcuni sospettano la presenza, tra i viandanti, di osservatori vaticani mandati in segreto nel deserto. Essi, osservatori discreti, censiscono continuamente il numero degli stiliti, stendono liste di eresie presunte, in ordine di gravità, e le consegnano a Roma tramite messi mascherati e rapidissimi. Questi inquisitori in incognito si dice siano abilissimi nell’orientare le quotidiane folle di fedeli verso questo o quello stilita, di fare, con un pugno di parole, la fortuna di un predicatore e la disdetta di un altro. Sarebbero dunque loro i maggiori inventori di prodigi, i manipolatori occulti della lotta di potere più lontana dall’urbanità che la storia dell’uomo ricordi.

Anche molti mistici ed eremiti hanno ormai orrore delle colonne, che dicono divenute incompatibili col ritiro spirituale. Essi si domandano, infatti, se questi nuovi stiliti cerchino il contatto col divino meno di un piedistallo per parlare alle folle. Il derelitto, l’emarginato, il criminale; colui che non ha mai ricevuto un briciolo d’amore dalla gente, che è stato bandito dalla società e braccato dalla legge, guadagna oggi, nella colonna, un pulpito gratuito, e si vede finalmente attorniato da folle, per quando esigue, finalmente disposte ad ascoltare le sue parole, ad amarlo, ad adorarlo, perfino. Per reazione, gli eremiti più ortodossi, oggi, evitano le colonne come la peste; piuttosto, si addentrano per giorni nei più ignoti anfratti della terra, portando con sé un numero d’assi di legno e di chiodi che sarebbero insufficienti per la costruzione di una bara. Essi non iniziano a scavare la propria fossa prima di aver raggiunto l’assoluta certezza di trovarsi a miglia e miglia dal più flebile odore d’umanità. La fossa non è mai più larga né lunga di pochi cubiti, e le assi servono a sostegno del soffitto, di rado abbastanza alto da permettere a un uomo di alzarsi in piedi; è dotata di un unico ingresso, rigorosamente nascosto da un cespuglio, da pietre, da teschi bovini. Terminata l’edificazione delle buche, gli eremiti vi si ritirano definitivamente. Così essi siedono nel ventre del nulla, mormorano le loro preghiere all’oscurità. Non ricevono elemosina alcuna, né l’accetterebbero, nemmeno se un viandante, per pura ventura, scoperchiasse uno dei loro nascondigli. Muoiono d’inedia e consunzione, nella più ricercata indifferenza degli uomini; e non manca chi maligna sulla loro sfiducia nel prossimo, tanto radicale che, al pari dei condannati al patibolo, si preoccupano di scavarsi la fossa da soli.

Gli scettici sbagliano, tuttavia, quando sostengono che l’ormai caotico culto degli stiliti abbia dimenticato il silenzio ed il distacco dal mondo. Fra tante colonne, la più frequentata, la più ricca di devoti, quella alla quale si attribuiscono i miracoli più numerosi e stupefacenti, rimane costantemente muta. Né canti né predicazioni si levano da quel pilastro. Perché appartiene a Simón, e Simón è morto vent’anni fa. Il suo teschio, fissato alla sommità di un palo in cima alla colonna, continua a gettare il suo sguardo portentoso e severo sopra i fedeli prostrati e muti. Quelle orbite vuote, in fondo, non appaiono meno luminose degli iridi del mistico più febbricitante, in quanto uno stilita rimane, in primo luogo, un uomo che ha deliberatamente abbandonato il mondo dei vivi.

Nessun commento: