Belial coltiva, tra gli altri, il vizio della scrittura. Ha scritto i romanzi Saxophone Street Blues (2008, Las Vegas) e Making Movies (2009, Las Vegas).

lunedì 11 febbraio 2008

L'Uomo che Cade - La Recensione di Belial

Che cosa c'è da aspettarsi da un uomo di settantadue anni? Da un autore che già da molto tempo è considerato tra i più grandi, nel suo paese e nel mondo? Da uno scrittore che, per la sua forza profetica, per la sua capacità di fondere finzione e realtà, per opere monumentali come Underworld, potrebbe tranquillamente portarsi a casa un Nobel per la letteratura?
Un'opera senile, verrebbe da dire. Un capolavoro stanco, senza più invenzioni, tematiche già esaurite nelle pagine di un passato profetico (Libra). Tanto più dopo la mezza stroncatura apparsa sul New York Times e firmata dal premio Pulitzer Michiko Kakutani.
Ma francamente, L'uomo che cade, è un romanzo di tale potenza da farci seriamente sospettare che anche il New York Times, di tanto in tanto, spari delle gran stronzate.


In queste 257 pagine, d'accordo, non c'è il DeLillo tagliente ed ironico di Rumore Bianco, né quello, titanico e inarrivabile, di Underworld. Eppure L'uomo che cade va classificato, più che nel declino della senilità, nel pieno della maturità dell'autore italoamericano.
Sarebbe riduttivo dire che DeLillo ha raggiunto la più alta padronanza nell'arte della parola scritta; ogni capitolo di questo romanzo ha la solidità del classico e la forza di un'autorialità collaudata ed inimitabile. Ma nell'Uomo che cade DeLillo si dimostra soprattutto maestro del non dire.
I rischi di trattare la questione dell'11 Settembre sono infiniti. Tanto più per un autore americano e Newyorkese. Aderire alla teoria del complotto? Negarla completamente? Demonizzare i terroristi? O magari umanizzarli? Essere apologetici nei confronti di Bush e della guerra? O piuttosto del mondo islamico?
Oliver Stone ha scelto di non fare niente di tutto questo, regalandoci un film del tutto inutile.
Don DeLillo ha scelto di non fare niente di tutto questo, sfruttando il nostro inconscio collettivo; non ha bisogno, DeLillo, di mostrare quello che tutti abbiamo già visto nell'infinita esposizione mediatica delle stesse immagine di morte. Il gioco di ellissi, di metafore, di rimandi e di invenzioni come Bill Lawton, o l'anonimo perfomance artist) ha una forza tale che l'autore può permettersi il lusso di non nominare mai l'evento su cui il romanzo è imperniato. Non si tratta di politica, né di giornalismo o di speculazione. Questa è letteratura.
Certo Don DeLillo ha già scritto grandi pagine sul terrorismo, sulla dissoluzione dell'impero americano, sulla crisi della famiglia, sul gioco d'azzardo, sulla morte. Ma questo nulla toglie al valore dell'Uomo che cade. Quando, fra molti anni, le opere di finzione ispirate all'11 Settembre 2001 riempiranno intere biblioteche, questo sarà uno dei libri che vorremo ricordare, quello che torneremo a leggere e rivalutare. Con buona pace del New York Times.


Grazie, Donnie.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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